“Visto che andate tanto su internet informatevi meglio, basta usare anche soltanto Google per capire come stanno le cose”.
Ripartiamo da qui, dalla frase della nonna del ragazzino di 13 anni colpito da una NON contagiosa meningite virale. Perché questa vicenda fa pensare. Deve farci pensare.
Succede che immersi nella comunicazione come siamo, a volte ne perdiamo il senso.
La falsa notizia parte da un fatto vero, ma poi si scatena incontrollata. È il giornale fai da te dei social network che non confronta, non verifica, urla rabbia e paura prima ancora di capire se il campanello d’allarme che assale riveli davvero un pericolo. Eppure quando sentiamo un rumore inatteso in casa, ci comportiamo in maniera diversa, perché cerchiamo di comprendere se davvero qualcosa non va, prima di intervenire.
Invece sui social – qui da noi va forte facebook – si parte in quarta. Allora la raccontiamo quasi in prima persona, la vicenda dello sballottamento di una famiglia a forza di chiacchiere, per guardare dietro all’angolo e vedere meglio il contesto.
Sono quasi le nove di sera di sabato, sui telefoni del giornale – quello ufficiale, registrato in Tribunale di Lecco, che ha (giustamente) norme, leggi e autoregolamentazioni deontologiche da seguire – piombano sms, messaggi whatsapp e anche telefonate. Tutto all’improvviso e praticamente contemporaneo.
Nella giornata lunga di Valsassinanews sarebbe il momento di mettersi a cena, che aspetterà, perché al tempo del ‘tutti sempre connessi’ dare le notizie è quasi accessorio, conta invece una attività specifica: la verifica della notizia.
Significa mettere mano all’abilità di intrecciare pezzi di dna sparsi e spesso imbrattati da altro dna per ricostruire il tessuto originario e restituirlo di nuovo intero e non a brandelli.
La prima traccia arriva tutta sporca e da ripulire: “C’è la meningite in Valsassina, perché non dite niente, perché censurate la notizia?”. A quell’ora, a uffici e scuole chiuse, si inizia a lavorare di telefono. Si chiede e poi si chiede ancora, si attiva chi dovrebbe sapere, si cercano al cellulare le fonti ufficiali. L’orario è tardo e quindi maleducato per le chiamate, ma non ci si può e nemmeno deve fermare.
Ci raccontano di un ragazzo. Poi emerge che è un ragazzino, …sarebbe in ospedale da mercoledì. A questo punto la nostra attenzione si fa più acuta. Entra in gioco il sentimento di protezione, siamo genitori pure noi e si continua a bussare porte.
Intanto altre richieste di prendere posizione si aggiungono alle prime arrivate. Ma non possiamo e non vogliamo scriverne fino a quando non è tutto chiaro. Va avanti per quasi due ore.
Alla fine il lavoro dà i suoi frutti. Il dna è ricostruito. Sì meningite sì, ma virale. Non è contagiosa. È la sfortuna di uno. Solo sua e di nessun altro.
Il dramma di una famiglia attaccata inutilmente diventa lampante. C’è solo da stare vicini a questi genitori.
E “pregare anche se non si è credenti” come dice, il giorno successivo, la nonna del ragazzino colpito dalla disgrazia. Pregare che ne esca, che dia un calcio al fato malevolo.
Ora che tutte le voci, sia quelle ricevute che quelle sollecitate sono confrontate, si può scrivere e pubblicare.
La differenza tra il giornale fai da te e il giornale registrato in Tribunale sta tutta qui, nella distanza tra lo scrivere di getto e il cercare di capire al meglio le cose prima di mettersi alla tastiera. Certamente per noi è un lavoro, quindi ci impegniamo dentro tempo e preparazione, che giustamente non tutti possono avere. È cosa che s’impara come qualsiasi professionalità complessa. E poi c’è sempre il difficile confine tra il pubblicare velocemente e il controllo delle fonti: indugiare troppo in quest’ultimo a volte significa seriamente rischiare di nascondere. Ma questo è un altro discorso.
Lavoro finito? No: su facebook l’articolo viene attaccato. Una osservazione tra queste ci aiuta, ci permette di essere chiari oltremodo. Gli altri commenti invece sono le solite cose… Poi arriva chi dice ok, avete fatto bene.
Ora, a mezzanotte e oltre, possiamo scaldare la cena, anche se da genitori siamo colpiti dalla vicenda di questa famiglia e non abbiamo più fame.
In questa storia di fakenews valsassinese, di falsa notizia nostrana, lampeggia la seria necessità di raccontare le notizie, perché altrimenti si alzano polveroni a sostituire la VERITÀ, che invece va illuminata e messa ben al centro della scena.
Prima della bagarre su facebook forse sarebbe stato meglio che le Autorità preposte avessero detto la loro in maniera chiara, per non mettere in ansia altri genitori. Forse sarà intervenuta una mal interpretata preoccupazione per la privacy, la legge che doveva proteggere e invece più spesso fa danni.
E quindi ha ragione la nonna del piccolo ammalato valsassinese: siamo sempre su internet, usiamola bene la rete.
Nadia Alessi