“E che farai adesso, figlio mio dagli occhi azzurri,
che farai adesso, mio caro ragazzo?”
(A Hard Rain’s A-Gonna Fall – The Freewhelin’ Bob Dylan
Bob Dylan – 1963)
Un prima e un dopo.
E un telefono che squilla alle tre e mezza del mattino.
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Ha piovuto tanto. Troppo.
Non smetteva mai, una pioggia instancabile, scrosciante, cascate dal cielo, nubi basse, nebbie fuggenti tra le cime, acque ruggenti colano da ogni parte, sgorgano da mille pertugi.
E i segnali. I primi.
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Un fiume di fango sotto la villa rossa. Nessuno immagina sia solo un preludio e, del resto, chi l’avrebbe potuto immaginare?
Poi continua a piovere. E piove. E piove.
Quindici anni prima aveva fatto lo stesso, era luglio, e non avevo mai visto la Pioverna in quello stato.
Ma adesso è diverso, la Pioverna è fuori controllo e si infiltra nel terreno, scava e riappare. Così, alle immagini di una vita, aggiungo quelle di un pavimento che si alza e si piega spinto da una mano invisibile e fiotti d’acqua che erompono come geyser.
Mentre, intanto, continuava inesorabilmente a piovere.
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I pascoli, là in alto, sono zucchero.
La montagna, lassù, sembra plasmata da una fata buona: non è la Grigna, quel sasso forgiato là di fronte con le sue rocce, le sue durezze, i canaloni ripidi e impraticabili, e le caverne, ed un grigio da paura, da strega.
Qui no. Qui d’estate pascolano tranquilli gli armenti, le capre si sdraiano sulla pista che porta al Lares e poi ancora più in là, dove i posti bellissimi lasciano spazio ad altri posti bellissimi, e così via, verso un apparente infinito.
Eppure.
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La montagna è stanca, forse troppo vecchia, e non ha più la forza per ribellarsi alle onde del tempo, al precipitare di tutte quelle gocce, a quel diluvio mandato a lavar via chissà quale peccato e che nessuna invocazione riesce a fermare.
La montagna è sfiancata e comincia a piangere lacrime di pietra, le scaraventa di sotto addosso a gente che guarda in su, incredula, incapace di ribellarsi.
La montagna è snervata e comincia a urlare al vento la sua malattia, tutta quell’acqua ha riempito ogni fessura, ogni difesa, e travalicato ogni argine.
E così, alla fine, la montagna esplode.
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Un prima e un dopo.
E rispondi al telefono alle tre e mezza del mattino.
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Sembra ci sia in giro il Canara.
In effetti è proprio là, sta cercando di capire qualcosa tra l’oscurità e l’incertezza delle linee di un orizzonte che forse non c’è più. Da qualche parte nel buio devono esserci anche i tecnici del gas.
Sappiamo che una casa c’è ancora, un’altra anche, e poi non sappiamo più niente perché lì avrebbe dovuto essercene una bellissima con un grande giardino, ma sembra scomparsa. Magari è nebbia, magari polvere, oppure quel muro di terra e roccia che forma una nuova montagna nel bel mezzo della provinciale?
Siamo sulla strada di Parlasco ad aspettare che venga giorno. Ha smesso di piovere e, una volta diradatasi la nebbia, vediamo le stelle.
Diluvio finito, peccati espiati, ora non resta che aspettare una improbabile risurrezione.
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I pascoli, là in alto, sono dolci ed accolgono con gioia il primo sole dopo settimane trascorse in un abisso di oscurità; le cime sono plasmate da milioni di anni di vento. Lassù è tutto a posto, la montagna è perbene. Già, come fa una montagna così ad essere perfida?
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Ha piovuto tanto. Troppo.
Guardo attorno, cerco di capire se è solo un inizio oppure se il peggio è passato; guardo le mie montagne, le nostre montagne, per sincerarmi che non stiano crollando come quella che ho di fronte, segnata da un pennacchio di fumo, marchiata per sempre da una piaga che ancora oggi, dopo quindici anni, non si è rimarginata e, verosimilmente, non lo sarà mai del tutto.
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C’era un prima e c’è un dopo, e ciascuno ha le sue storie.
Io metto giù il telefono alle tre e trentuno del mattino.
Era domenica.
Ma non una buona domenica.
Riccardo
Benedetti
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