La Bjibjerè



Emiliano Invernizzi
La Bjibjerè
Tutte le volte che pronuncio questo temine del nostro
dialetto, faccio sempre nascere nel mio sorpreso
interlocutore, reazioni diverse.
Il termine è uno di quelli che, parlando in esinese,
necessita di un non indifferente periodo di difficoltoso
esercizio fonetico. Di solito, se ti trovi davanti il
benpensante, modaiolo e modernista : ne ottieni un ghigno
inebetito di stupido compatimento; se ti trovi invece
l’inesperto, che i genitori, suo malgrado, gli hanno
imposto l’italiano, privandolo del piacere che solo il
dialetto ti da nel dialogare, beh… la sorpresa è di
ignoranza pura e incomprensione.
La più interessante reazione, invece, ce l’ho io.
Si, proprio io, perché Bjibjerè mi catapulta indietro nel
tempo, riportandomi bambino, in quel periodo dove, a
mio parere, i profumi erano più intensi, i colori più vivi,
gli inverni più nevosi, il fuoco più caldo e le persone più
vere. Dove il sapere di vecchi era saggezza, dove
l’esperienza era sapere, dove il capire era esperienza e il
capire era credere… Dove nulla veniva “snobbato”, dove i
riti non erano irrisi, dove le tradizioni non erano
“folklorizzate”… dove ogni singola parola aveva un
peso… Proprio come la Bjibjerè
Il nome di questo rito trae le sue origini da chissà quale
periodo storico, sociale e religioso, che affonda le sue
radici in saperi ancestrali, che la memoria d’uomo non
può e non vuole violare.
Gibiana, Giubiana, Giobia, Giunee, Zobiana o altri
ancora, sono i termini usati, qui vicino nei territori di
Lombardia, per chiamare questo affascinante e misterioso
appuntamento, di grandi e piccini. E proprio questi, in
quel tempo passato, erano i protagonisti del gran falò;
cominciavano subito sotto le Feste a raccogliere,
trascinare ed accantonare con train e biroc o altri mezzi di
fortuna, tutto quello che in paese nulla servire doveva
più.
Un gran da fare, un gran freddo “da mangiare”, quanti
dispetti, quanti sgambetti; si, perché a Esino i falò era
due: quello di sopra e quello di sotto e a gareggiare non
era solo la grandezza, nel finale era “a chi lo accendeva
dopo” e dunque incursioni, false accensioni…a volte
…delle gran botte.
Ora però è tutto diverso, ora è più facile reperire l’inutile,
ormai tutto, dopo poco, è inutile, è senza valore… e poi il
falò è uno, basta competizioni o concorrenze: ormai i
ragazzi, per fortuna non tutti, annoiati da una esistenza
iperprotetta, asettica e disincantata…. non ci pensano
nemmeno a faticare come muli nel portare materassi e
vecchi armadi e nemmeno di arrampicarsi sull’altissima
pira o di suonare all’impazzata i campanacci…il corno
del pastore…. I ragazzi non sognano più, è stato tolto
loro il mondo dei sogni, il mondo della fantasia. Un
tempo gridavano a squarciagola “Gineer,
Gineer…castegn in Psciazzèbèlè, carcai in
Sciorcasèlè…” . Oggi nessuno, nessuno più gli ha
trasmesso loro il sapere di queste parole, il loro potere
propiziatorio, il loro fascino … il loro dono liberatorio di
un inverno, che con le sue miserie sta bruciando e lascia il
campo dei nostri cuori al fiorire della primavera.
Alcuni, sognatori, ci credono ancora, pochi a dir la verità;
o meglio, riescono ad avvertire in quel gran calore
rovente, l’amore della natura, la forza degli elementi, la
protezione dei propri Padri, la purificazione delle proprie
mancanze, l’allontanarsi del male alla vigilia di un’ aurora
migliore.
Esino , 26 Gennaio 2011

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