Ostia, 1995. Una ripresa in campo lungo del pontile si allarga dalla rotonda e mostra un ragazzo che corre, in diagonale, verso un coetano seduto sul parapetto. La spiaggia semivuota, il rumore delle onde. Per chiunque sia appena tornato da una vacanza, l’ennesima, sul litorale romano, il tutto ha un sapore familiare, ma vagamente opaco, in bilico sul crinale tra realtà e finzione. Questa non è l’Ostia dei villeggianti estivi, non è la piazza dello “struscio” serale, dei baci dati a mezzanotte, degli artisti di strada che conquistano la folla. Per chi conosce Claudio Caligari, il pontile è molto altro, è citazione e autocitazione (Amore tossico, la frase famosa «Ma come, dovemo svoltà e te te piji er gelato?»), è Caligari che ruba a Caligari, è richiamo a Pasolini e sintesi di un mondo ultimo, infame, teatro di vite sbranate che finiscono per sbranare gli esclusi, gli emarginati, i drammaticamente autentici.
Non essere cattivo comincia con una battuta storica («Ahó, io sto incazzato fracico e te te stai a magnà er gelato»), la cui candida schiettezza riporta alla mente il Cesare di Amore Tossico che qui rivive estremizzato, allucinato, nei panni e negli occhi di un omonimo perduto, amico fraterno – anzi, fratello di vita – di un altro Accattone dal nome importante (Vittorio, appunto), vittime e protagonisti di una vita bastarda che qui è rappresentata in maniera dolentissima e mai patetica da un regista che il sistema produttivo italiano ha snobbato e marginalizzato.
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