L’unda de ieer porta l’unda de incöö
l’öcc de un vecc l’era l’öcc de un fiöö
(“E semm partii” – 2001 – Davide Bernasconi)
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Tutte le sere, prima di andare a dormire, ho l’abitudine di guardare fuori dalla finestra.
Mi piace vedere il giorno che finisce, osservare le stelle che luccicano, guardare le luci di navigazione dell’aereo che alle 23.30 bordeggia come un’aquila lo Zucco di Cam.
Non so da dove arrivi, non so dove stia andando: ma è sempre lì, più o meno puntuale, così come puntuale arriva il giorno in cui bisogna adeguare la casa alle feste di Natale. Per cui salgo nello spazzacà, cerco di ricordarmi dove ho messo il presepe, le luminarie, il verde, le varie lampade, le prolunghe, la stella, e, carico di tutto, scendo le scale.
Niente di strano, cose che facciamo in tanti; già, ma quando scendo quelle scale mi sembra di averle salite (carico del presepe, delle luminarie, del verde, delle prolunghe, della stella) cinque minuti prima e invece…
Invece è passato un anno.
Trecentosessantacinque aerei delle 23.30, quattro stagioni, dodici mesi; l’intera carovana del firmamento ha viaggiato sopra di noi, ogni ventotto giorni le lune si sono riempite e svuotate della luce del Sole, la neve si è sciolta, gli alberi sono fioriti, l’erba è cresciuta e diventata fieno; poi i boschi hanno iniziato a diventare tavolozze di colori e il buio è tornato a farsi vedere presto.
Ed io sono salito nello spazzacà per l’ennesima volta.
Non so se anche voi avete qualche volta sperimentato queste sensazioni; personalmente le trovo molto più emozionanti del clamore del capodanno, dei conti alla rovescia prima dei quali siamo quelli e dopo dei quali siamo sempre gli stessi; magari in buona compagnia, certo, ma ben sapendo che i conti con il tempo sono sempre e comunque una questione personale e non di champagne.
I miei vicini di casa hanno una bimba che forse avrà due anni. Non sa niente di tutto questo ma lo imparerà; il tempo, anche se spiace solo pensarlo, non guarda in faccia nessuno.
Poi trovo la Gianna (mia mamma) con il carrello della spesa in giro per Cortenova; noto sempre con piacere che, nonostante qualche acciacco e il freddo di Brigolda, i suoi quasi ottanta li porta decisamente bene.
La saluto, la guardo negli occhi e mi viene in mente, chissà perché, la bimba dei vicini.
Accendo le luci, come ho fatto l’anno scorso, come ho fatto due, tre, quattro, cinque e chissà quanti anni fa; prendono vita anche le luminarie disseminate per le strade dando un po’ di calore a vie solitamente imbiancate da fredde luci a led (che saranno anche più economiche, ma certamente hanno tolto il fascino ai misteri che si rincorrono nella notte).
Accendo le luci e mi accorgo di avere due spazzacà: uno sotto il tetto della casa, l’altro nella testa. La differenza tra i due è che il primo (quello sopra la casa) si apre e si chiude quando lo decido io; l’altro, quello nella testa, non è comandabile e, in più, quando si apre ha effetti talvolta devastanti, tipo valanga per intenderci, al di sopra della quale bisogna imparare a galleggiare.
Complice l’anticiclone che ci sta accompagnando da più di un mese tra le maledizioni di chi vorrebbe un pò di bianco non solo in strada ma anche sulle montagne, anche stasera il cielo è limpido nella sua oscurità; il giorno finisce, le luci intermittenti delle 23.30 sfiorano Cam, il sabato lascia spazio alla domenica.
Guardo le mie lampadine accese ed anche quelle dei vicini che stanno lì a ricordare cosa stiamo aspettando.
Ecco, se penso che c’è in giro gente che tenta di toglierci tutto questo, salita e discesa dallo spazzacà con presepe e lumini vari in mano compresa, mi viene da chiedermi cosa provavano queste persone quando erano bambini o bambine mentre aspettavano il Natale.
E mi piacerebbe che gli si aprissero violentemente (ma molto violentemente) le porte del solaio che hanno nella testa per vedere se nella loro vita hanno imparato a salvarsi da certe valanghe che solitamente non lasciano scampo.
Buona domenica.