CASARGO – Stanchissimo, provato ma non deluso e solo un filo incazzato. Chi lo conosce non poteva che aspettarselo così, Flavio Spazzadeschi, al rientro dall’India dopo la spedizione molto lecchese in Himalaya. Attacco fallito al Trisul1, ma progetto nient’affatto cancellato, anzi.
Ed ecco dalle vive parole dell’esperto alpinista di casa nostra come sono andate davvero le cose in Asia: “Esperienza bellissima anche senza il successo che cercavamo. Ma in realtà i problemi hanno radici precedenti ai giorni della Expedition vera e propria: tutto è nato con quell’inatteso cambio di programma imposto dall’India appena dieci giorni prima della partenza. Passare da una montagna studiata a lungo come il Kamet ad un’altra piuttosto sconosciuta, scoprire poi in loco tutta una serie di altre problematiche e infine dover affrontare anche se in ottime condizioni fisiche una parete di 600 metri con pendenza di 60 gradi, completamente ghiacciata e sopra quota seimila, ecco questo era veramente troppo anche per gente tosta e motivata come eravamo noi…”.
Parole di elogio vanno proprio ai compagni di spedizione di Flavio: “Un gruppo eccezionale – e non era per niente detto che lo fosse, per età, esperienza e precedenti in comune. Grande disponibilità al sacrificio da parte di tutti, anche di chi si è messo da parte quando è stato necessario; anche per questo dispiace non aver potuto raggiungere l’obiettivo e proprio per questo puntiamo a tornare in India già l’anno prossimo. Siamo a buon punto con i permessi e anche se insomma abbiamo capito che quel paese è un po’ diciamo così ‘difficile’ sul fronte organizzativo e della burocrazia, contiamo di poter dare l’assalto nel 2017 a quello cera e rimane la cima nel nostro mirino: il Kamet”.
Dall’India sono tornati per ora in tre: lo stesso Spazzadeschi e i giovani valtellinesi Matteo Balatti e Filippo Lisignoli. Gli altri tre membri della spedizione sono rimasti nel grande paese asiatico per qualche giorno di turismo propriamente detto, dopo settimane anche difficili, specie climaticamente.
“Su trenta giorni via ne abbiamo passati 28 sotto la neve – commenta Flavio -. Quando abbiamo lasciato il Campo 2 a quota 5.800 e siamo saliti verso il Trisul la situazione si è rivelata impossibile: metri di neve, gli stessi sherpa hanno capito che l’impresa era troppo rischiosa e un buon capo spedizione, prima di tutto deve pensare alla vita dei suoi compagni. Certo, se avessimo potuto analizzare per tempo le condizioni di quello specifico versante, avremmo ragionato su preparazione, tattiche e soprattutto attrezzature diverse. Niente, è andata così e adesso pensiamo solo a riprovare, stavolta con l’obiettivo primario della prima italiana al Kamet“.