“Preghiamo di avere
la forza, Signore
preghiamo di avere
la fede, Signore
Avanti,
avanti,
avanti, alzati!
avanti, alzatevi!”
(My city of ruins – The Rising – Bruce Springsteen – 2002)
Guardo fuori dalla finestra.
Due centimetri di neve sono tenacemente incollati al terreno, il sottozero non dà tregua, intorno sembra davvero inverno nonostante il cielo limpido che ogni mattina ti accoglie, nonostante le stelle che ogni sera ti accompagnano a dormire.
Ci siamo già passati, il brutto arriva da nord o da est, si infrange, disperdendosi, sui ripidi pendii delle Alpi, scavalca il settentrione e precipita su altri luoghi.
Non c’è tregua laggiù, nessun armistizio, le armi della terra e della natura continuano a sparare su gente inerme già fuggita dalle proprie case.
Perché proprio noi? Domanda senza risposta. Il cielo vomita neve, la montagna crolla e distrugge, il cuore batte forte di paura ed anche chi aiuta ha il diritto di essere stanco, qualche volta di piangere.
Da che parte stare? Condividere il sorriso di chi è riaffiorato oppure abbracciare lo strazio di chi spera e prega ancora?
La medaglia ha due facce e gira verso l’alto prima di ricadere al suolo, testa o croce, chi vince, chi perde, perché proprio noi?
Ognuno ha il suo undici settembre, una tragedia che si porta appresso; e gli eroi aumentano di numero, uomini sottopagati che si muovono alla luce delle fotocellule, non hanno le ali ma se guardassimo bene le vedremmo, non saranno mai santi ma, spesso, fanno miracoli senza attendere la Provvidenza ed il suo volto consolatore.
Per ripiombare poi, il dodici settembre, quando le fotocellule si spengono, nell’ombra.
Grazie.
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Secolo scorso, mattina o pomeriggio non importa.
Prima volta nel laico tempio dell’atletica lecchese. Devo correre. Anzi, a dire la verità, devo correre più velocemente possibile, la scuola mi ha portato lì per questo.
Blocco di partenza. Corsia. 80 metri. Traguardo.
Sembra semplice. Già, sembra. Ma non lo è.
Mi sono allenato su una strada asfaltata: avevo un blocco malfermo e ho provato all’infinito ad uscirne; mi sento pronto ma sono emozionato. Sono lì, in quel grande spazio, su quella bella pista sorvegliata dal Resegone, illuminata dai riflessi del lago. Chissà come andrà.
Non c’è più tempo. Ai vostri posti. Sono già lì da un pezzo vicino ad altri sei o sette come me che non conosco, vengono da altre scuole della città, io arrivo da fuori e anche loro non sanno chi sono.
Mi sembrano meglio attrezzati, ma, in fondo, per correre basta una maglietta, un paio di braghe corte e un paio di scarpe adatte.
Dimenticavo: servono anche gambe e testa, ma quando sei giovanissimo è l’ultima delle preoccupazioni.
Sparo. Via. Fuori dal blocco scivolo, gli altri scappano. Mi ricordo gambe e testa e rincorro, rincorro e rincorro.
E vinco.
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Qualche anno dopo, stesso posto, altre circostanze, altro sport.
Negli spogliatoi respiri un effluvio di olio di canfora, apre i polmoni e riscalda i polpacci; piove anche forte ma si gioca lo stesso, il campo 1 è in buone condizioni per cui fuori tutti e cercate di fare il meglio possibile.
Il campo 1 era il nostro San Siro: chi ci giocava sapeva di essere privilegiato e guardava gli altri, lontano, battagliare su altri terreni, mentre tu avevi il pubblico sulla tribuna e gli occhi di tutti addosso.
L’allenatore urla in continuazione, fai così, vai di là, vieni qui, passa, tira, torna e copri, porco di qui, porco di là; l’area di rigore è di fango, cross da destra, scivolo per tre metri ed entro in porta con il pallone. Partita vinta, ne sarebbero arrivate altre, ma la prima è quella che ricordi di più. L’avversario? Forse il Legnano, ma la memoria è confusa e ingrigisce come i capelli. E poi non è importante, interessa a nessuno per cui chiudo il cassetto in spazzacà.
Torniamo negli spogliatoi e si accendono le docce. L’umidità diventa nebbia, ti togli il fango da dosso e riacquisti un aspetto decente; devi fare alla svelta, fuori c’è un’altra squadra, devono giocarsi la loro occasione, come noi, come tanti altri venuti prima e che verranno in futuro. Quel posto sembra non dormire mai.
Gente che corre, che prende a calci un pallone, che lo porta a spasso verso una meta, verso un canestro, oltre una rete, o che nuota, o altro ancora che adesso non mi viene in mente.
Non servono eroi per sistemare le cose di oggi; ricordate? Gambe e testa, scivolare, correre e rincorrere.
E, possibilmente, vincere.
Perché lo dovete a noi che siamo tutti figli del Bione e non vogliamo assistere al suo funerale ed all’undici settembre (con grande rispetto parlando) dello sport a Lecco.
Buona domenica.
Riccardo
Benedetti
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