Seconda parte dell’approfondimento di Enrico Baroncelli dedicato al Comandante Gek ed al movimento partigiano nell’ambito della rubrica di VN “Storia e storie in Valsassina“.
PARTE 1ª: LA RITIRATA DELLA BRIGATA ROSSELLI.
I PARTIGIANI DI BIANDINO E GEROLA VERSO LA SVIZZERA
Quello che successe dopo il 17 aprile 1945, giorno in cui sulla Gazzetta Ufficiale furono pubblicate le Leggi Sociali volute da Mussolini, che lui auspicava fossero il suo testamento politico (una “mina sociale” le definiva, che comprendevano la nazionalizzazione di tutte le banche e di tutte le fabbriche con più di cinque operai) fu sostanzialmente un rapido e improvviso collasso delle forze armate germaniche, dopo che gli Alleati avevano superato il Po. I fascisti, che i tedeschi non fidandosi avevano sempre tenuto lontani dalla linea del fronte, lasciandoli a occuparsi soltanto della repressione interna antipartigiana, non se lo aspettavano, o meglio non così di colpo: molto interessanti a tal proposito i capitoli 77 e 78 della “Storia della Guerra Civile in Italia” di Giorgio Pisanò, già senatore Missino, comunque la si pensi un’opera molto ricca di documentazione.
Anche perché, come conferma Federigo Giordano, il comandante Gek di cui abbiamo parlato nella prima parte dell’articolo, la Resistenza nell’inverno del 1945 era stata sostanzialmente neutralizzata: pochi partigiani rimasti nelle valli (tra cui Mario Cerati di Introbio, in Val Biandino, e il comandante Piero Losi nascostosi alle cascine Barconcelli di Premana) a controllare il territorio, molti invece scappati in Svizzera. Le formazioni partigiane si ricostituiranno praticamente solo nel marzo-aprile del 1945 , grazie anche ad importanti rifornimenti aerei americani (ne ha parlato anche Aroldo Benini nel suo “Nerina non balla”) scaricati in volo anche intorno al pizzo Varrone.
Riassumiamo allora cosa successe dopo il 25 aprile: come noto il cardinale di Milano Ildefonso Schuster si era offerto come mediatore per trattare tra i fascisti e il CLN partigiano. Mussolini però avvisato da Graziani del crollo del fronte abbandonò improvvisamente il tavolo della trattativa, per recarsi alla Prefettura, suo quartier generale. Da lì, tra lacrime e scene apocalittiche, partì la colonna in marcia di automobili che insieme all’ex Duce trasportava molti ministri e notabili della Repubblica di Salò: da Pavolini, al ministro Mezzasoma, Nicola Bombacci, Marcello Petacci (il fratello di Claretta) e parecchi altri, in totale saranno quindici quelli catturati e poi fucilati dai partigiani sulla spalliera del lungolago a Dongo tre giorni dopo.
Ma andiamo con ordine: da Milano la carovana si porta sull’autostrada per Como (non tutti lo sanno, ma fu la prima autostrada italiana, costruita nel 1924-25 e inaugurata dal Re in persona). A Como, come dice lo stesso Pisanò, c’era un gran viavai di truppe tedesche ormai in ritirata e di fascisti che volevano raggiungere la Valtellina, per costituirvi l’ultima fortificazione, il cosiddetto “Ridotto Valtellinese” (che però esisteva più che altro nella fantasia del segretario del PFR, Alessandro Pavolini appunto).
Fin dall’inizio, stranamente, la più veloce e sicura strada statale tra Lecco e Colico era stata scartata, per scegliere una strada molto più stretta, tortuosa e atta alle imboscate come appunto la “Via Regina”, nella sponda occidentale del Lario (all’epoca ancora più stretta di oggi).
Questa strana scelta probabilmente forse anche perché Mussolini voleva tenersi aperta la possibilità di una fuga in Svizzera – perse anche un giorno prezioso a Menaggio in attesa di informazioni da qualche improbabile agente di un servizio segreto, non si sa se italiano o inglese, che naturalmente non si fece vedere – ma come è noto gli svizzeri gli rifiutarono il passaggio (su questi episodi vi è una vasta letteratura, derivata molte volte più dalla fantasia di bizzarri autori che dalla realtà).
Alle 5,30 del mattino del 27 aprile la colonna riparte da Menaggio, ma ormai era troppo tardi: la strada era stata bloccata con dei tronchi d’albero in una strettoia poco prima di Dongo. L’autoblindo “Lucca” su cui era seduto il Duce fu costretta a fermarsi (una scarica di mitraglia fece il resto!) da un gruppo partigiano comandato da Pier Luigi Bellini detto “Pedro”.
Sempre Pavolini da parte sua, poco prima di tentare la fuga gettandosi nel Lago (rimarrà ferito da una mitragliata e subito recuperato) convince allora il Duce a un mascheramento poco glorioso: scende dall’autoblindo e sale travestito sotto una divisa tedesca su un camion di una colonna che era con loro, la colonna “Flak”, un gruppo di artiglieri tedeschi specializzati nella batteria antiaerea.
È qui che ritorna in scena il nostro Gek: il comandante del battaglione tedesco venne portato a Morbegno (non a Colico, dice Giordano, dove è stato pure redatto anni dopo un falso verbale) a discutere con i partigiani da lui guidati una soluzione per uscire dall’impasse. La soluzione è nota: i partigiani si sarebbero impegnati a lasciar passare i tedeschi attraverso la Val Chiavenna e dal Passo dello Spluga, concordandolo però con gli svizzeri. Gek infatti aveva il timore che se fossero passati dalla Valtellina avrebbero potuto ricongiungersi con altre forze tedesche e fasciste ivi esistenti, e ridiventare pericolosi.
I fascisti italiani però avrebbero dovuto essere tutti consegnati alle forze partigiane: questo trattato, di cui Pisanò sospettava, conferma l’ipotesi che i fascisti fossero sostanzialmente stati abbandonati dai tedeschi al loro triste destino. Il testo del Trattato però, lamenta giustamente Gek, è stato fatto successivamente sparire da un certo Mario de Micheli, legato probabilmente al PCI, che ne ha sequestrato tutte le copie, compresa quella di Gek, con la falsa promessa che gli sarebbe stata restituita presto.
Oltre all’abbandono di Mussolini e dei gerarchi fascisti alla loro sorte, praticamente tutti fucilati poco dopo, rimaneva ancora la delicata questione del cosiddetto “Oro di Dongo”. Il comando partigiano di Morbegno, dice ancora Gek, si occupò di togliere le auto dal passaggio di Dongo, ormai “vuote di persone”: però “al comando era stato segnalato che sulle vetture si trovavano notevoli quantità di monete d’oro (sterline) in parte consegnate correttamente al comando di Morbegno, per un totale di circa 330 sterline d’oro. Erano però una piccola parte – così si seppe in seguito – del ben più ingente quantitativo di oro e di valute trasportate dalla colonna fascista e tedesca”.
Pochi mesi dopo infatti ci fu una prima istruttoria su questi fatti, curata dal procuratore militare, generale Leone Zingales, per chiarire dove fosse finito quell’oro. Di queste 330 sterline, “sette, dicesi sette sterline io avevo ritenuto di poter assegnare ai sette membri della squadra comando che avevano collaborato nel recupero del tesoro (quindi una sterlina d’oro a testa) e il Magistrato approvò tale decisione non ritenendola affatto una distrazione di beni di pertinenza dello Stato”.
È fuori di dubbio che il “tesoro” fosse costituito dalle riserve del sedicente Governo o della RSI o frutto di rapine ed estorsioni – in effetti la RSI batteva moneta ancora in Lire Italiane, meno svalutate delle Lire americane, quindi più preziose, e tutti i soldati congedati dalla RSI avevano ricevuto una loro “buonuscita” finale dal maresciallo Graziani di almeno 7.000 lire (lo conferma lo storico Renzo de Felice).
In sostanza i reduci fascisti andavano in giro, negli ultimi drammatici giorni dell’aprile 1945 con un sacco di soldi addosso (compresi quelli fucilati a Lecco davanti allo Stadio, ne riparleremo) che di certo potevano fare gola a molti.
E quindi dell’Oro di Dongo? “Personalmente ritengo – conclude in modo sarcastico il comandante Gek, con una versione probabilmente più che condivisibile – che il “tesoro” ritrovato sia stato utilizzato dal partito che aveva promosso la costituzione delle formazioni Garibaldi” (cioè in altri termini il PCI) “e che non aveva quindi alcun interesse alla prosecuzione dell’indagine”.
Sic et Simpliciter!
Enrico Baroncelli