Questo sabato 23 febbraio, nel pomeriggio, verrà presentato al pubblico il restauro del famoso Polittico custodito nella Parrocchiale di San Giorgio di Cremeno, datato al 1534, di notevoli dimensioni e con ben 31 immagini sacre su sfondo dorato. Si tratta di un’opera abbastanza nota, ospitata nella prima cappella a destra della Chiesa.
Composto da nove riquadri ebbe varie attribuzioni fino al 1988 quando furono ritrovati i documenti che ne attestavano la commissione al De Magistris e al suo allievo Ambrogio Arcimboldo nel 1534. Un atto notarile dell’agosto 1534 infatti documenta la commissione del Polittico di san Giorgio a Cremeno (Lecco) a Sigismondo de Magistris (figlio di Giovanni Andrea) e ad Ambrogio Arcimboldi. Questi risulta figlio del defunto magistri Faxini de Arcimboldis abitante a Como.
I due pittori lavorarono assieme anche a Santa Giustina a Germanedo e a san Giorgio ad Acquate nel lecchese. Altre opere sono note a Livo, Chiavenna e a Gera Lario nella chiesa di San Vincenzo. Qui i due affrescarono un sant’Agostino nel 1546 all’interno di una complessa decorazione del presbiterio, commissionata dalla locale Società dei Naviganti. L’imponente raffigurazione di Agostino ce lo presenta entro uno studiolo carico di libri a sottolineare, in funzione antiluterana, la corretta interpretazione delle Sacre Scritture, secondo la tradizione della Chiesa cattolica. Il santo sotto gli abiti episcopali mostra la cocolla nera dei monaci agostiniani.
Una ampia descrizione e valutazione del Polittico è contenuta in una opera abbastanza approfondita di Fabio Zizolfi, “La Parrocchiale di San Giorgio a Cremeno”, disponibile anche online sul portale academia.edu da cui prendiamo diversi spunti qui di seguito riportati.
La tavola posta in alto sul polittico cremenese raffigura San Giorgio (a cui è dedicata la Parrocchiale) che trafigge il drago con la lancia, secondo un concetto di “Ecclesia militans et miles Christi”. Dietro la scena centrale, una giovane donna impaurita sembra volersi ritrarre. San Giorgio quindi uccide il drago, che rappresenta il maligno, sempre pronto ad insidiare il genere umano e a portarlo verso la perdizione, verso il peccato. In esso possiamo vedere Satana, il diavolo, capace di assumere qualsiasi sembiante, sempre alla ricerca di anime da traviare. La giovane donna invece rappresenterebbe la Chiesa, colei la quale è costantemente insidiata dal drago, dalla mala bestia, dalla causa prima degli umani traviamenti, de suoi peccati. La Chiesa, una vera guida, unica difesa del genere umano contro le tentazioni del demonio.
La cavalcatura è senz’altro uno splendido destriero, secondo la definizione che ne dà l’Ariosto nell’Orlando furioso. La bardatura è degna del cavaliere. Bella ma pratica in battaglia. Il cavallo s’impenna, non per la paura di un qualsiasi pericolo, ma per aiutare il suo cavaliere ad assestare con maggior potenza il colpo.
Il drago si attorce ai piedi del cavallo. Ma la sua non è paura, è trattenuta potenza. Egli è pronto a scattare, a colpire mortalmente il cavaliere o la sua cavalcatura. Dietro al mostruoso sembiante s’intuisce la sua forza e potenza.
La scena viene inserita in un contesto naturalistico verde, sullo sfondo si intravede una città fortificata o un castello. Sullo sfondo della tavola dipinta dalla bottega del De Magistris, intravediamo una merlatura. Essa richiama la presenza di un borgo, di abitazioni, di persone.
Sulla sinistra di questa, abbiamo un’altra tavola con fondo in oro. Sono due le figure che compaiono nella tavola. Sulla sinistra appare una figura di frate con indosso il saio dei francescani, l’altro un vescovo che brandisce con veemenza uno staffile. Il primo è molto probabilmente San Francesco.
Il vescovo invece è “Pastor bonus “, Sant’Ambrogio, impassibile fustigatore del male e del peccato. Ambrogio, un uomo aduso alle armi ed alla fedeltà militare, il cui prestigio diviene una portentosa risorsa nelle mani della cristianità. Un uomo integerrimo al servizio di Cristo e della Chiesa, l’arcivescovo milanese porta l’abbigliamento tipico di un vescovo e le relative insegne: il piviale, la mitria, l’anello, il pastorale, ed uno staffile.
Anche la tavola sulla destra si caratterizza per il fondo in oro.
Se nella tavola di sinistra abbiamo trovato san Francesco, qui troviamo l’altro campione della fede, messo in campo contro l’eresia da Innocenzo III, quel Domenico di Guzman, fondatore dell’Ordine dei Domenicani, e padre del Tribunale dell’Inquisizione.
Come San Francesco, anche Domenico di Guzman stringe tra le mani un crocefisso. Domenico veste il tipico abito bianco e la mantella nera dei domenicani. La postura ed il viso compreso nella contemplazione del crocifisso rientrano pienamente nella più consolidata tradizione. D’altro canto la funzione eminentemente simbolica è assicurata dallo sfondo in oro, di cui si intravede una fine lavorazione a palmette.
La figura accanto a San Domenico ritrae un uomo canuto, con una lunga barba bianca ed una fiamma in mano. Si tratta, quasi sicuramente di Sant’Antonio Abate, asceta nato in Egitto nel III secolo e protettore degli animali.
Chi era Sigismondo De Magistris
Figlio di Giovanni Andrea De Magistris e nipote di Gian Antonio detto Gentilino, fu figlio d’arte. Sia il padre che lo zio furono pittori; Sigismondo si formò nella bottega paterna, ma è probabile che fece il suo apprendistato presso un altro pittore, forse Alvise de Donati. La sua attività si apre nel 1515 con le Storie della Vergine, Santi e Profeti della chiesa di Santa Maria del Carmine a Montagna in Valtellina. In lui convivono rimandi alla cultura milanese del tardo Quattrocento, quale Montorfano, Leonardo e Zenale, probabilmente recepiti attraverso Alvise de Donati; inoltre utilizza ampiamente le stampe düreriane e nel caso del ciclo di Montagna in Valtellina usa le xilografia della Vita della Vergine del 1511.
Verso il 1530 collabora con Ambrogio Arcimboldi, mentre dal 1534 si trasferirà in zona lariana, dove troviamo, tra le ultime opere, il ciclo di S. Pietro a Garzeno con Storie dell’infanzia di Cristo, Apostoli e Santi, in cui si assesta su moduli luineschi e gaudenziani. La morte dell’artista avviene dopo il 1548.
Enrico Baroncelli
Le foto in questa pagina sono di Gianni Peverelli, che ringraziamo unitamente ad Alvaro Ferrari – responsabile del coordinamento del restauro a Cremeno.