Il Vangelo di oggi si divide chiaramente in due parti: la parabola dei due figli e la sua applicazione. La parabola è di facile comprensione: Dio non ci domanda una obbedienza delle labbra, ma poi non della vita; gradisce invece l’obbedienza della vita anche se dopo un primo rifiuto. È la denuncia di una religione che si limita alle parole e alle apparenze, e che nasconde così il rifiuto del cuore.
È invece più difficile comprendere l’applicazione che Gesù fa di questa parabola riferendola alla predicazione di Giovanni Battista e alle differenti risposte: quella dei maestri riconosciuti (sommi sacerdoti e scribi) che non hanno creduto alla predicazione del Battista, e quella di pubblicani e prostitute che invece gli hanno creduto e hanno cambiato vita.
Potremmo dire che l’onesta professione dei primi è come il sì a parole di un figlio al padre; mentre la disonesta professione di prostitute ed esattori di tasse (tali erano i pubblicani) sono come il no dell’altro figlio al padre.
Ma queste professioni dicono solo l’esteriorità della persona, mentre Gesù guarda al cuore.
Ed ecco che mentre alla professione onesta fa riscontro il “non vi siete neppure pentiti per credergli”, alla professione disonesta fa riscontro il pentimento e il “gli hanno creduto”.
Per comprendere meglio il cambiamento di pubblicani e prostitute basterà ricordare l’incontro di Gesù con il pubblicano Zaccheo a cui disse: “Oggi la salvezza è entrata in questa casa”, e con la prostituta che gli lavò i piedi con le sue lacrime della quale disse: “Molto le è perdonato perché molto ha amato”.
Quale applicazione ha per noi questo Vangelo?
Siamo presenti a Messa e perciò stiamo dicendo “sì” al Signore: questa è una cosa buona e ci fa sentire giusti.
In che cosa dunque possono esserci di esempio ladri e prostitute?
Non nella disonestà del loro comportamento esteriore, ma nel sentimento del cuore: sembra paradossale, ma, mentre la loro colpa li ha portati a riconoscere la disonestà della loro vita messa a confronto con la persona di Gesù, la cosa giusta che noi facciamo tende a farci credere di essere giusti anche nel cuore.
Ma questo passaggio non è automatico.
Anzitutto ci manca di mettere la nostra vita nella luce della persona di Gesù, e ci sentiamo a posto per quello che facciamo in obbedienza Lui.
Questo genera presunzione, vanto, pretesa: sentimenti che si esprimono poi nella durezza di cuore verso gli altri, nella facilità al giudizio, alla critica, all’essere persone acide.
La nostra vita diventa gradita al Signore e gioiosa per noi quando facciamo sì quello che Lui ci domanda, ma lo facciamo con umiltà, senza vanto, con dispiacere e non con cattiveria verso chi sbaglia, con gli stessi sentimenti di Dio che è Padre di tutti.
Don Gabriele
Vicario parrocchiale