Qualche decennio fa ho cominciato attivamente a occuparmi, con curiosità e impegno, di “Res Publica” e ora che sto rivisitando con il necessario distacco i ricordi della mia esperienza di pubblico amministratore sulle montagne lecchesi della Valsassina, terra di minuscole municipalità e di manzoniana memoria, mi è oltremodo fastidioso assistere alle reiterate promesse fatte in tema di riforma della pubblica amministrazione e di semplificazione delle procedure amministrative. Come si dice in questi casi, nessuno escluso: da destra a sinistra, passando rigorosamente per il centro e altrettanto rigorosamente, per il bene del Paese. Dovrei essermi abituato e invece ancora no.
Il livello decisionale anche nei piccoli comuni è, infatti, diventato ostaggio di pareri e veti incrociati in pletoriche commissioni e sottocommissioni che formano una giungla quasi inestricabile di “Garanzie” concepite dai diretti interessati sostanzialmente a tutela dei sempre timorosi funzionari dotati di firma e che, soprattutto dopo le cosiddette “Leggi Bassanini”, sono oggi contrabbandate quali provvidenziali e indispensabili salvaguardie tese a presidiare ogni singolo passaggio procedurale che caratterizza l’iter di ciascuna pratica amministrativa ma anche del percorso parlamentare necessario a partorire qualunque norma, legge o leggina che regola la nostra società, creando alibi e paraventi che rappresentano le ricorrenti e più diffuse giustificazioni professionali ma anche politiche che spesso consentono il blocco dei cantieri con insopportabili dilazioni temporali nella realizzazione delle opere pubbliche. Il cambiare tutto per non cambiare niente, regna sovrano
Dopo la legge 142/1990 “Ordinamento delle autonomie locali” nel contesto sommariamente descritto, per quanto riguarda le unioni o le fusioni dei comuni di minore dimensione come quelli di montagna, responsabilità e colpe per le persistenti difficoltà gestionali che affliggono questi enti ritengo vadano ascritte a chi negli anni scorsi non li ha poi supportati con la necessaria determinazione nel cammino verso una nuova e definitiva veste istituzionale. Come nostra consuetudine chi ha voluto portarsi avanti lo ha fatto, in proprio, mentre altri sono stati alla finestra senza rischiare nulla o quasi. Quando si è però dovuto dimostrare per davvero come si risparmia e anche si può guadagnare con amministrazioni virtuose ma non più supportate dai contributi inizialmente garantiti alle aggregazioni fra comuni, salvo lodevoli eccezioni, è stato un fuggi fuggi generale con il mesto ritorno al recente passato. Cioè al proprio accogliente campanile e a quel deleterio frazionamento di sussistenza che caratterizza molte aree geografiche dell’italico stivale. All’epoca mi è sembrato di assistere a quanto era già avvenuto nel periodo e non solo sul territorio della Comunità montana della Valsassina, quando ogni comune doveva obbligatoriamente dotarsi del Piano regolatore generale che allora si chiamava ancora così: la maggior parte delle amministrazioni lo fece nei tempi di legge, altre molto dopo. I più zelanti amministratori comunali ebbero da subito rigidi vincoli urbanistici calati sui loro territori mentre chi arrivò con le mani libere e con grave ritardo alla meta – mi risulta senza sanzione alcuna – all’italiana, se la cavò con una tiratina d’orecchi e facendo spallucce.
È proprio quello che, analogamente, sta accadendo anche ai giorni nostri con gli impedimenti che gli incolpevoli piccoli borghi, lasciati a se stessi, incontrano e spesso non riescono a superare nell’accedere e gestire i fondi del PNRR che in teoria, con l’irripetibile occasione, dovrebbero risolvere tutti o quasi i loro problemi in termini di infrastrutture e che invece rischiano di farli incamminare verso un scivoloso declivio che, obtorto collo, consiglierà a molte piccole amministrazioni comunali di gettare la spugna. Ciò, vista la carenza di personale qualificato delle loro piante organiche che già influenza negativamente anche lo svolgimento delle quotidiane mansioni di stretta competenza. Stando così le cose, ho infine maturato la convinzione che lo Stato centrale non avrà mai il “coraggio” di favorire il superamento della frammentazione dei piccoli comuni assumendo, in piena Autonomia e con autorevolezza, una superiore decisione parlamentare che consenta di bypassare l’evidente impasse in cui si dibatte la stragrande maggioranza delle piccole e medie municipalità e questo per l’irriferibile timore di “scontentare” più di qualcuno dei propri interlocutori e dunque di incappare nel rischio di quella perdita di consenso che fa rizzare i capelli in testa a ogni politico in carriera, da che mondo è mondo.
Al dunque. In alto loco forse pensano sia meglio che le piccole municipalità affondino nelle loro difficoltà e prendano direttamente coscienza dei propri attuali invalicabili limiti anche gestionali e si rassegnino alle inevitabili fusioni dei comuni. Se questo a medio o lungo termine dovesse avvenire, con magra consolazione, non si potrà comunque ascrivere la responsabilità del gesto a chi invece di aiutare concretamente i piccoli comuni, a livello centrale e di fatto, ha stretto lentamente il laccio assistendo da lontano al progressivo e inesorabile sfaldamento di una storia millenaria ma a quel punto la politica-politicante rischia di non salvare neppure la faccia. Mentre la fiducia dei cittadini é ai minimi storici, il riordino della macchina amministrativa e burocratica dello Stato attende tempi migliori.
Claudio Baruffaldi