A Vendrogno, domenica 28 gennaio, con qualche giorno d’anticipo, gli ex allievi salesiani del collegio Giglio festeggeranno la ricorrenza di S. Giovanni Bosco, con la celebrazione religiosa nella chiesa di S. Lorenzo e la tradizionale agape fraterna a cui si seguirà la visita al Museo del latte e della chiesa di S. Antonio con un programma come sempre attrattivo.
Ma non è solo di questo che si vuole raccontare.
La festa di don Bosco, che cade il 31 gennaio, è ricordata ovunque con grande partecipazione, almeno dove ci sono state o esistano ancora delle case salesiane, ma anche in quelle comunità dove pur non essendo presenti istituti di don Bosco, i giovani di un tempo passato erano quasi tutti indirizzati nel loro percorso educativo e formativo, oltre che al Collegio Giglio, nei collegi di Sondrio e di Milano. Un esempio è la comunità degli ex allievi di Premana, che festeggia annualmente con molta solennità la ricorrenza, essendo molto legata all’istituto salesiano di Sondrio che, contrariamente alla più parte degli istituti salesiani, non si occupava della dimensione formativa, lasciata alle scuole del capoluogo valtellinese, ma di quella educativa a tutto tondo, nella funzione di una grande famiglia allargata.
L’occasione della prossima ricorrenza sta però stimolando gli organizzatori ex allievi di Vendrogno su alcune nuove e importanti riflessioni, che vanno ben oltre la tradizionale simpatica rimpatriata di chi è stato nel passato allievo del Collegio Giglio [a sinistra in una cartolina d’epoca].
Nel territorio allargato della nostra Comunità Montana, dove tanti meno giovani hanno vissuto l’esperienza dell’opera educativa e formativa delle scuole di don Bosco, questo stimolo potrebbe essere ancor più sentito, e per alcune ragioni particolari. Certamente per l’elevato numero degli ex allievi presenti nel territorio e il loro forte senso di attaccamento ai ricordi salesiani. Poi per avuto la presenza in Valle del Collegio Giglio, dove sono stati educati e istruiti migliaia e migliaia di giovani di diverse generazioni, che hanno beneficiato di grandi educatori di cui c’è una doverosa gratitudine.
La figura dell’ultimo educatore, molto amato e ricordato è stato sicuramente don Camillo Giordani, che in quel di Vendrogno fu dapprima educatore, poi direttore e infine parroco della Muggiasca.
I suoi ex allievi gli hanno dedicato una bellissima biografia, ricca di tantissimi ricordi fotografici che da soli sono più che sufficienti per raccontare gli effetti positivi dell’applicazione del sistema educativo di don Bosco. Ma oggi, quel collegio non c’è più e gli ex allievi attivisti e promotori e sostenitori delle feste invecchiano anche loro, ed è ragionevole pensare che nell’obblio delle tante cose buone del passato, prima o dopo potrebbe finire anche la storia e il ricordo del collegio salesiano di Vendrogno, dei bravi educatori che vi hanno operato e di don Bosco.
In Valle ci sono stati altri grandi educatori salesiani, molti missionari, i cui insegnamenti se ricordati, potrebbero essere ancora attuali; anche di loro si sta affievolendo il ricordo. Ci fu un vescovo missionario mons. Giuseppe Selva, ormai ricordato nella toponomastica viaria e in qualche lapide; don Pietro Tantardini in Venezuela, don Dante Invernizzi in Bolivia e altri ancora. Ma sarebbe ancora facile ricordare i due fratelli sacerdoti, don Luigi e padre Pedro Melesi, entrambi anche cofondatori dell’operazione Mato Grosso. Il primo fu indubbiamente un grande educatore che svolse il suo apostolato nei campi accidentati di Arese e del carcere di S. Vittore. Il secondo fu un grande missionario in Brasile e delle sue opere conosciamo ancora poco.
Nello stesso tempo, a coloro che hanno trascorso parte della loro gioventù nelle case salesiane non può essere sfuggito l’appello di Papa Francesco, quando ha evidenziato la presenza di una catastrofe educativa, così come la grande preoccupazione del nostro Arcivescovo, costretto a farvi fronte con le forze di cui dispone.
Da tempo, infatti, stiamo assistendo passivamente al crollo del sistema educativo, colpevoli direttamente o indirettamente quelle che sono chiamate le agenzie educative, a partire dalle famiglie, poi la scuola e certamente anche le parrocchie. Ognuna di queste agenzie ha le sue buone o meno buone ragioni per giustificare l’incapacità o l’inadeguatezza a provvedere.
Per uscire da questa visione preoccupante e cercare qualche spiraglio di speranza alternativa, potremmo guardare indietro nel passato, pensare a don Bosco e riflettere sui suoi insegnamenti che potrebbero avere ancora una loro attualità, e se riscoperti potremmo ricavarne qualche beneficio.
Certamente l’esperienza salesiana di tanti ex allievi avrebbe tante cose buone da raccontarci e forse i raduni annuali potrebbero effettivamente essere ancora l’occasione di allargare gli orizzonti oltre le festose rimpatriate, rompendo quel “sonnambulismo” che il recente Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese attribuisce alla nostra società, affermando che l’Italia è un Paese di “sonnambuli”: che vuol dire sempre secondo il Censis “il portato antropologico della difficile transizione dalla grammatica trasparente di un mondo che presentava problemi risolvibili con competenza e impegno, a un mondo invece reso opaco dall’incertezza”.
I SONNAMBULI
Ciechi dinanzi ai presagi
“Alcuni processi economici e sociali largamente prevedibili nei loro effetti sembrano rimossi dall’agenda collettiva del Paese, o comunque sottovalutati. Benché il loro impatto sarà dirompente per la tenuta del sistema, l’insipienza di fronte ai cupi presagi si traduce in una colpevole irresolutezza. La società italiana sembra affetta da un sonnambulismo diffuso, precipitata in un sonno profondo del calcolo raziocinante che servirebbe per affrontare dinamiche strutturali, di lungo periodo, dagli effetti potenzialmente funesti”.
Ciò significa, sempre secondo quanto scrive il Censis, che siamo passati da un mondo dove si poteva operare sia pur con difficoltà, con competenze e impegno per risolvere anche difficili problemi, a un mondo con molte incertezze. E in un mondo con così gravi incertezze come possono crescere i giovani, che sono il nostro futuro e che, fra alcuni decenni, dovranno continuare la tradizione del ricordo degli insegnamenti di don Bosco? Oggi, infatti, chi ha responsabilità educative deve scegliere quale eredità vuol portare nel futuro, chiedendosi nel caso degli ex allievi, se negli insegnamenti di don Bosco c’è ancora qualcosa di buono che valga la pena lasciare in eredità alle nuove generazioni. Ma l’eredità o si è capaci di trasmetterla nel futuro o non è eredità.
C’è anche un interessantissimo editoriale su un numero recente di Famiglia Cristiana, scritto da Andrea Riccardi fondatore della comunità di S. Egidio, dal titolo “La Chiesa non si deve rassegnare a un paese fatto di Sonnambuli”. È una affermazione assolutamente condivisibile, ma cosa si deve fare?
Se oggi il sonnambulismo di cui scrive il Censis è molto evidente, anche ai tempi di don Bosco in alcuni ambienti era già presente. Prova ne è, che don Bosco accortosi di tanti giovanetti non accuditi e educati che avrebbero rischiato la totale emarginazione con le peggiori conseguenze, si fece carico di occuparsene, “scendendo dai colli, un dì lontano, con la sola madre accanto…”, per dare vita al primo oratorio.
Allora, agli ex allievi salesiani, in occasione della prossima ricorrenza, ricordando la storia di S. Giovanni Bosco, il suo sistema educativo preventivo e le tante opere salesiane realizzate in tutto il mondo, nonché l’esperienza educativa fatta da ognuno, qualche spunto di reazione al sonnambulismo potrebbe venire in mente.
Anche il Papa, preoccupato per la situazione educativa, ha reagito nel suo ultimo concistoro nominando cardinale il Rettor Maggiore dei Salesiani. Certamente il Pontefice, nella sua scelta, ha pensato ai giovani di tutto il mondo, e infatti i salesiani si occupano dei giovani di tutto il mondo; poi ha riconosciuto nel sistema educativo preventivo di don Bosco una pastorale giovanile d’avanguardia e in don Bosco un modello di prete educatore pastore tra i giovani, che non sta “dietro il gregge”, bensì davanti come guida, attento agli “scarti” della società, ascoltando, guidando, insegnando e perdonando tutti coloro che hanno bisogno.
Non si può che essere grati a Papa Francesco per questo suo riconoscimento. Ma se andassimo indietro nel tempo, quando il cardinal Montini, Arcivescovo di Milano ebbe ad occuparsi dei giovani bisognosi di rieducazione, nonostante avesse alle spalle l’organizzazione della più grande diocesi al mondo, ricorse ai preti salesiani di don Bosco e al loro modello educativo, affidando a loro il difficile incarico che si realizzò nella casa salesiana di Arese. Anche quella fu una scelta giusta.
Così pure il cardinal Colombo e poi il cardinale Martini [a sinistra], quand’ebbero ad occuparsi di attività di rieducazioni complicate ricorsero ai salesiani di don Bosco, a don Luigi Melesi che fu cappellano di S. Vittore per 30 anni. Se uscissimo dai confini nazionali e ci spingessimo, per esempio, nelle case salesiane del Cairo o di Alessandria di Egitto troviamo tanti altri buon esempi da cui trarre ispirazione. Mentre da noi è ancora vivace la preoccupazione dell’islamismo e non autorizziamo la costruzione di luoghi di culto per la preghiera, là negli istituti salesiani egiziani, dove l’80% degli studenti è di religione islamica, da oltre settant’anni assieme alla chiesa con gli altari di don Bosco, Marias Ausiliatrice e Domenico Savio, c’è la moschea per la preghiera musulmana. E nella tradizionale festa della scuola, quando si premiano gli alunni meritevoli, agli studenti di religione cattolica si regala la Bibbia o il Vangelo mentre ai musulmani il Corano.
Viene allora spontaneo chiedersi se stiano sbagliando i preti di don Bosco o siamo ancora noi che non riusciamo a guardare oltre gli orizzonti in cui pensiamo di avere garanzie sulle nostre certezze?
Si potrebbero raccontare tantissimi episodi dove la salesianità e il metodo di don Bosco ha risolto e risolve ancora complicate situazioni con interventi terapeutici educativi di grande efficacia.
Ma anche solo se tornassimo alla nostra infanzia, le prime catechesi moderne anche in epoca conciliare, che si affiancavano un po’ in modo contradditorio al vecchio catechismo di S. Pio X, obbligatorio da conoscere per accedere ai sacramenti, erano tutte centrate sulla storia di don Bosco. E quelle catechesi venivano fatte nel periodo della Quaresima, solitamente nella scuola elementare dal coadiutore, utilizzando le prime novità tecnologiche delle diapositive e dei filmati.
Noi tutti apprendemmo in quelle occasioni la storia di don Bosco, di un ragazzo vivace che diventò prete per curare e educare altri ragazzi vivaci, accompagnato nella sua opera da Mamma Margerita. Ciò che ci colpiva della storia del santo erano i racconti dei suoi sogni, che fin dalla sua infanzia furono segali premonitori di quello che sarebbe successo nella sua vita. Allora ci chiediamo se quell’approccio catechistico non sia più attuale e attrattivo ai giorni nostri? Gli addetti ai lavori avranno le giuste soluzioni alternative, ma lo studio e la conoscenza del passato aiuta a costruire meglio il futuro, e di un buon futuro abbiamo tanto bisogno.
Perché, allora, non farci provocare dal bellissimo canto “Giù dai colli”, che conclude festosamente la celebrazione eucaristica della festa di don Bosco?
“Dai colli verso il piano” è sceso un povero prete, portandosi con sé solo la mamma, per raccogliere i più soli, i più disperati, i più bisognosi.
Non era guidato da conoscenze teologiche, lo ha indirizzato solo il Signore con lo strumento dei sogni. Lo capì Papa Pio IX che lo esortò a scrivere quei sogni che poi furono utili nelle tante catechesi dei piccoli. Poi don Bosco, per i suoi giovani, si occupò di oratorio, di scuola, di formazione e di lavoro. Addirittura, scrisse il primo contratto di lavoro giovanile. Fondò la Congregazione e diffuse case e il metodo educativo preventivo in tutto il mondo. Quel metodo dell’ascolto funzionò perfettamente. Don Luigi Melesi lo applicò anche ai brigatisti rossi e a chi aveva scelto di fare la lotta armata contro lo Stato. Il metodo funzionò ancora e quest’ultimi desistettero dal loro progetto criminale e consegnarono le armi al cardinale Martini. Quel gesto del 1987 fu la fine della lotta armata, un pezzo terribile della storia del nostro Paese.
E quando don Luigi Melesi ricevette la laurea honoris causa, nell’introduzione della sua lectio magistralis ebbe a dire al Rettore dell’università: “Vi siete sbagliati, la laurea la dovevate dare a don Bosco perché è lui che ha inventato il sistema preventivo, io ho cercato solo di applicarlo anche nei campi minati dove mi hanno mandato ad operare”.
Allora, possiamo tornare di nuovo al ritornello del canto conclusivo della prossima celebrazione eucaristica, che porta con sé l’espressione di un bisogno di grande attualità: “Don Bosco ritorna tra i giovani ancor, ti chiaman frementi di gioia e di amor”.
L’autore di questi testi aveva visto giusto. C’è proprio un grande bisogno che don Bosco “ritorni” con il suo insegnamento a mettere mano nel nostro sistema educativo. E gli ex allievi salesiani, responsabili di cosa vogliono lasciare in eredità , potrebbero fare la prime crepe nel sonnambulismo della Società e delle sue istituzioni educative.
Valerio Ricciardelli
Per Valsassinanews
e Lario News