La qualità e la composizione dell’aria in città sono molto differenti rispetto a quelle dell’aria delle zone montane. A incidere non è solo la diffusione più o meno consistente di attività industriali, ma anche altri fattori come la densità di popolazione e l’altitudine. Come si può facilmente intuire, tale divario determina anche un grado di inquinamento atmosferico differente, che porta a effetti rilevanti sia sull’ecosistema che sulla salute. In un contesto simile diventa di fondamentale importanza il ruolo dei sensori ambientali, strumenti che permettono di tenere monitorata in maniera costante la concentrazione non solo dell’ossigeno, ma anche dell’anidride carbonica e di altre sostanze che possono inquinare l’aria. Proprio grazie ai sensori, come quelli prodotti da Repcom, è possibile avere a disposizione dati utili per valutare e analizzare le varie sfide correlate all’inquinamento atmosferico: sfide che, inevitabilmente, devono essere affrontate, al pari di quelle che riguardano la qualità dell’aria.
L’analisi dell’aria
Una delle più importanti cause di inquinamento atmosferico, a maggior ragione nelle grandi città, va individuata nei trasporti: la conferma è giunta da una ricerca che è stata condotta dagli studiosi dell’Università Sapienza di Roma (Dipartimento di Sanità Pubblica e Malattie Infettive) e del Centro Oncologico di Ricerca e Prevenzione della Provincia di Rieti. Oggetto dell’indagine è stata la presenza nella chimica degli aerosol di particelle sub-microniche, al fine di verificare quanto il traffico dei veicoli incide realmente sulla qualità dell’aria. Gli esiti dello studio sono stati resi noti nel 2019, ma a distanza di pochi anni restano validi, soprattutto se si continua a confrontare una zona a densità di traffico veicolare elevata come una grande città e una zona montana con altitudine superiore ai 2mila metri (l’indagine aveva preso come campioni di riferimento Roma e il monte Terminillo).
Tutta colpa del traffico?
Nel nostro Paese, secondo l’Informative Inventory Report di Ispra, il traffico rappresenta la prima fonte di ossidi di azoto, con il settore dei trasporti che ne produce quasi la metà del totale a livello nazionale, il 70% a Milano, il 54% in Lombardia e il 50% nel bacino padano. Non a caso, le concentrazioni di ossidi di azoto più elevate vengono riscontrate nelle stazioni da traffico. Se è vero che il continuo rinnovo del parco veicoli in circolazione ha determinato una graduale riduzione delle emissioni di ossidi di azoto generate dai mezzi a benzina nel corso degli anni, è altrettanto vero che per i diesel i problemi sono maggiori, perché almeno fino alle categorie più recenti l’auspicata riduzione delle emissioni che era stata prevista nelle omologazioni non si è poi concretizzata su strada.
Le emissioni dal tubo di scappamento
A dispetto di un innegabile miglioramento progressivo, il traffico continua a incidere sulla qualità dell’aria nelle città, visto che è una delle più importanti sorgenti di inquinamento atmosferico, non solo per le emissioni di ossidi di azoto, che in estate portano ozono in atmosfera, ma anche per quelle di PM10 primario. È molto probabile che negli anni a venire diminuiranno sempre di più le emissioni dal tubo di scappamento, grazie alle auto euro 6 di ultima generazione, e forse ai mezzi elettrici. Ciò non toglie che la qualità dell’aria è compromessa anche da altri fattori legati all’uso della macchina, come l’usura dei freni e il risollevamento del materiale terrigeno.
Il comparto riscaldamento contribuisce, a propria volta, alle emissioni: ed è ovvio che questo fattore cresce là dove la densità di popolazione è maggiore. Lo stesso dicasi per il settore industriale, a sua volta fonte di ossidi di azoto.
E in montagna?
Uno studio del 2009, però, ha dimostrato che l’inquinamento che si forma nelle zone pianeggianti e si accumula nel tempo rischia di raggiungere le vette più alte (in Italia, gli Appennini e le Alpi; in Asia meridionale, addirittura la catena himalayana). Le catene montuose rivestono, da questo punto di vista, un ruolo di primo piano: infatti la presenza delle vette più alte favorisce la formazione delle brezze montane, le quali sono in grado di trasportare ad alta quota gli inquinanti, che nella troposfera sopravvivono molto a lungo. È così che perfino la montagna può trasformarsi in un recettore di inquinamento: sia quello che arriva dalle pianure circostanti, sia quello che proviene da masse d’aria inquinate che sono trasportate da zone più lontane. Tutto ciò è stato dimostrato dal progetto Share dedicato al monitoraggio climatico ambientale risalente, appunto, al 2009. I livelli di inquinamento che caratterizzano le aree montane, fra l’altro, consentono di monitorare i composti atmosferici e il loro andamento lontano dalle aree industriali e dalle città, che rappresentano le principali sorgenti di inquinamento antropico. L’aria di montagna, in sintesi, può essere influenzata dagli inquinanti trasportati, e ciò ha evidenti ripercussioni sia dal punto di vista del clima che, più in generale, sulla salute dell’ambiente.