Ho visto il ponte
E il ponte è lungo
L’hanno costruito alto
L’hanno costruito forte
Forte abbastanza per resistere
Al peso del tempo
E lungo abbastanza per lasciare
Alcuni di noi indietro
(The Bridge – The Captain and the Kid – Elton John – 2006)
Prima di tutto devo ammettere una colpa: la settimana scorsa ho tentato un inganno ed ho l’impressione di essere riuscito a cavarmela. Nessuno mi ha scritto, nessuno ha obiettato. Possibile che nessuno se ne sia accorto?
Ma come, questo qui non sa neanche contare? Tredici lettere, tredici, altro che dodici. Da qui la mia rassegnazione: non ho lettori attenti. O forse sono troppo gentili e non hanno voluto mettermi a disagio? Chissà!
Intanto è all’orizzonte una nuova domenica e mi ritrovo con un mazzo di carte in mano senza ben sapere cosa fare.
Oddio, a carte non ho mai saputo giocare. Lasciamo stare rubamazzetto, parlo dei giochi da “grandi”, scopa d’assi ad esempio dove la mia fine come giocatore e socio è stata decretata da un errore madornale a seguito del quale ol Paol Gatt si infuriò come una tigre (d’altronde, visto il soprannome, sua stretta parente) ed ancora sento l’eco del suo “Ricardo, cinq poont!” ripetuto all’infinito tra le risate degli avversari e degli avventori di quello che era per noi l’Arnold’s di Cunningham e Fonzarelli.
Non avevo, evidentemente, quel dono in forza del quale, a un certo punto, lui ti diceva esattamente quali carte avevano in mano tutti gli altri, per cui sbagliai e ori, primiera, settebello, carte e una scopa mi crollarono addosso come macigni e talvolta se ne escono ancora dal cassetto di uno dei miei armadi nascosti in spazzacà.
Qualcosa, però, dal mazzo devo scegliere, altrimenti dovrò giustificare al direttore, oltre al tredici diventato dodici, perché mai non sono riuscito a scrivergli il domenicale. Per cui scelgo quattro carte e me le gioco in questo triste fine settimana di novembre, mentre le nubi sono basse basse ed il Palone , come cinquant’anni fa, è un’ombra scura dietro la nebbia.
IL CERVO DI PICCHE
Toh, eccoci qua ancora una volta a parlare del mitico pseudo allevamento di Prà Cainarca, uno dei miei (nostri) cavalli di battaglia, non tanto perché a quei posti ci siamo affezionati, quanto perché non vogliamo che certe situazioni cadano nell’oblio e vengano dimenticate troppo presto.
Dalle ultime notizie sembra che al cervo abbiano dato l’ergastolo. Non so che tribunale l’abbia deciso e di fatto non mi interessa. Di certo è sempre meglio di una mazzata in testa e finire in una casseruola e poi su un piatto a far compagnia alla Zia Polenta (tranquilli, lo so che non tutti la pensano così, almeno dal punto di vista gastronomico), però è tutto il retroterra a restare impunito.
Dietro le corna il nulla, ma sotto le corna chi c’è? O, meglio, chi c’era?
IL GIORNALISTA DI QUADRI
Il buon Seve – saggio premanese – l’altro giorno mi dice: “gli risponderai a quel giornalista”, riferendosi al tizio che ha pubblicamente dichiarato “pallosa” la Grigna Settentrionale, scatenando una ridda di reazioni tra i numerosi amanti di questa guerriera diventata di roccia a seguito dell’assassinio di un prode cavaliere commissionato alla sua sentinella, peraltro anch’essa trasformata in sasso sia pure più frastagliato.
Devo dire che anche il cavaliere se l’è andata a cercare, visto che, parole sue, “avere te voglio o morire”, per cui non è che all’appuntamento ci sia andato impreparato (e la cosa mi ricorda (ahimè!) cosa capita agli allenatori dell’Inda).
Quel che meraviglia è che il popolo continui ad amare questa Guerriera, nonostante si tratti, in definitiva, della mandante di un assassinio bello e buono. La amano tutti tranne lui, il giornalista di Monza che la vede tutti i giorni e non ne può più.
Come del resto noi non ne possiamo più di condividere l’amore per una montagna (la nostra montagna) con troppa gente, per cui uno in meno con cui dover fare i conti al quale suggeriamo, dovesse mai tornarci, di stare attento alle sentinelle che stanno sopra i ponti. Si sa mai (e chissà perché mi viene in mente ancora la signora della pianura!).
IL PRETE DI CUORI
È da qualche settimana che giro e rigiro fra le mani il volumetto intitolato “Gli operai del Vangelo vanno in Paradiso” contenente le storie di quattro missionari della nostra Valle e prima o poi vedrete che riuscirò a scrivere anche di questi giganti della fede. Ancora non me la sento, non sono preparato a confrontarmi con loro e ciò che hanno rappresentato e continuano a rappresentare.
A proposito di gente che sta per andare lontano, posso invece raccontarvi in breve del mio incontro in un monastero della Val Poschiavo con Don Christophe Ngonde Wa Ngonde.
Don Christophe ha quarant’anni ed è nato a Pawa, un posto a est del Congo, dove in migliaia (soprattutto bambini) continuano a morire di malaria. Don Christophe da sedici anni è in Italia (attualmente lavora nelle Marche in una parrocchia di Fano) ed ha portato a termine con successo i suoi studi e le sue specializzazioni, per cui è arrivata l’ora di tornare a casa sua.
Lo manderanno in un villaggio che in poco tempo è cresciuto sino a contare ottomila abitanti: vicino hanno aperto una miniera d’oro per cui immaginatevi voi cosa può essere successo. Non c’è chiesa, non c’è canonica (“stanno preparandomi una capanna”), le strade sono un disastro, la povertà una consuetudine che non si nota nemmeno, non c’è acqua, non c’è elettricità (il Congo – settanta milioni di abitanti dispersi su un territorio grande sette volte l’Italia – vende l’80% dell’energia idroelettrica all’estero, persino al Sudafrica, ed il restante 20% serve a poco o nulla).
Dopo sedici anni in Italia, dei quali la maggior parte vissuti a Roma, Don Christophe mi dice di non avere paura di ciò che lo aspetta, solo curiosità e una enorme voglia di fare. “Mi servono dieci pannelli solari ed avrò la corrente per la chiesa e per la canonica” dice mentre gli occhi gli brillano e un largo sorriso gli appare come per magia sulle labbra.
“Sarai come un missionario” gli dico, e lui risponde di sì, “un missionario a casa mia” in un Paese dove il 70% è cattolico.
Partirà a marzo. Lo aspetta il suo vescovo, lo attendono i suoi futuri parrocchiani ma, soprattutto, il sogno che ha nel cuore.
IL PONTE DI FIORI
Nel mese di ottobre ho avuto modo di passeggiare su un ponte molto speciale. Si chiama Ponte Ciclopedonale della Libertà e collega Devinska Nova Ves (un quartiere di Bratislava) all’Austria, sbucando proprio in fronte allo Schlosshof, la tenuta estiva, gigantesco palazzo compreso, di Maria Teresa.
“Della libertà”, a dire il vero, non è il nome che la popolazione avrebbe voluto. Una specie di referendum aveva scelto (con 12.599 voti) “Chuck Norris”, mentre la Libertà aveva raccolto la miseria di 457 consensi: ciononostante, il governo ha deciso (ritengo a ragione nonostante Norris mi sia simpatico) di lasciar perdere Walker e dedicare la struttura ad un dono che da quelle parti ha costituito per decenni un miraggio ed onorare “la gente che correva verso la libertà attraverso un filo spinato”.
Il ponte è lungo 525 metri, largo quattro e valica la Morava, il grande fiume che costituiva il vecchio confine tra est e ovest in epoche non molto lontane. Passeggiandoci sopra si intravvedono ancora, tra piante e fiori secchi, i resti delle casematte ed alcuni cavalli di frisia lasciati lì a futura (e presente) memoria.
È, insomma, uno di quei ponti che uniscono sotto il quale intravvedi la tragedia e ti chiedi di chi è stata la colpa.
Oggi, di fronte a storie simili, sarebbe bene chiedersi di chi è la colpa. Non che poi tutto si risolva, ma almeno si eviterebbe di sbraitare a vanvera.
Con il rischio di tornare alle dodici, pardon, tredici, lettere della settimana scorsa.
Buona domenica.
Riccardo
Benedetti
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L’ARCHIVIO DELLA RUBRICA DOMENICALE |
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