Tütta sta gente culuràda, tràda in gìrr cumè shangai,
lüü la sa, lüü l’è convinto, l’è stada la causa de tücc i sò guai…
(Sugamara – E semm partii – Davide Bernasconi – 2001)
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Scrivi qualcosa. Qualsiasi.
Dopodomani è domenica e sono in tanti ad aspettare.
Già, ma cosa? Intendo “cosa scrivo”, non “cosa aspettano”, ma tutto sommato, a ben guardare, è la stessa cosa.
Fuori il vento soffia e spazza il cielo facendo correre qualche nuvola solitaria; lo sentite anche voi il profumo dell’autunno? Li vedete anche voi i colori che cambiano?
Scrivi qualcosa,. Qualsiasi.
Non renderebbe. È impossibile.
Di questi tempi bisognerebbe essere pittori, non scrivani, anche se, in fondo, a tutti noi che abitiamo i posti bellissimi basta affacciarsi da una finestra, sporgersi da un balcone o uscire in giardino per posare lo sguardo sulla stagione che cambia il vestito alle montagne.
E restare in silenzio.
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Oltre che pittori, però, qualche volta sarebbe bello essere anche profeti.
Non posso definirmi un ciclista. Oddio, una bicicletta ce l’ho e non è nemmeno da buttar via. Ho anche un paio di divise, una estiva e una invernale, anche se quando arriva il freddo preferisco esimermi dal pedalare. A primavera mi riprometto sempre di allenarmi ben sapendo che non riuscirò sicuramente nell’intento per motivi che ogni volta sono diversi ma sono sempre lì in mezzo, come tanti giovedì, ad impedirmi di raggiungere un risultato quantomeno soddisfacente.
Infatti, i ciclisti sono altri.
Sono quelli che a tutti gli orari li vedi sfrecciare sulla ciclabile o sulla provinciale vestiti in technicolor; sono totalmente concentrati, hanno i volti tesi nello sforzo; portano addosso strumentazioni talmente complesse da far invidia ad un astronauta che, oltre a misurare i chilometri percorsi, probabilmente eseguono in contemporanea una serie di disparati esami clinici; poi, una volta terminato l’allenamento, questi vengono scaricati sui computer ed esaminati attentamente per capire il proprio stato di forma e se ci sono stati miglioramenti rispetto al giorno prima.
I veri ciclisti sono quelli che sfidano il sottozero, le strade ghiacciate, la nebbia; sono quelli che alle cinque del mattino si alzano e vanno in garage a pedalare sui rulli sfidando sé stessi in una gara contro nessun altro con un muro di cemento come orizzonte.
Per cui no, non posso definirmi un ciclista.
Più semplicemente sono uno che qualche volta và in bicicletta perché così si rilassa, fa un po’ di movimento, si gusta l’aria fresca, si ferma alla fontanella a rinfrescarsi, si guarda intorno.
E, di questi tempi, resta in silenzio ad osservare i boschi che indossano la loro divisa forse più bella, quella che per nove mesi avevano tenuto ben nascosta nell’armadio mentre la natura percorreva (e ovviamente vinceva) il suo miliardesimo Giro del Mondo.
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Ma cosa c’entra tutta questa lunga e sicuramente stucchevole introduzione con i profeti, direte. Giusto. Cosa c’entra?
Non piacerebbe anche a voi sapere in anticipo cosa succederà domenica mattina? Sarà tragedia o commedia? Sarà dolore o indolore? Sarà caos o calma? Sarà baraonda o tranquillità?
In questi giorni il nostro piccolo mondo si è diviso in due: io vado in bicicletta, tu in macchina; io pedalo, tu guidi; io granfondo, tu sopporti.
E, nel bel mezzo di un guazzabuglio di lettere, interventi, risposte, affermazioni ed anche qualche vadavialcù neppure troppo sottinteso, una grande, enorme, stratosferica confusione di orari, passaggi, strade chiuse per quattro ore, poi per tre, poi per due, poi per una e infine per niente; muretti che capiscono la situazione e decidono in tutta autonomia di sfaldarsi; percorsi che cambiano, comuni che scrivono imbufaliti ad altri comuni, turisti che si lamentano perché non potranno “rubare” castagne che poi marciranno in dispensa, commercianti che alzano la mano per dire che ci sono anche loro, nel caso qualcuno se ne fosse dimenticato; e poi organizzatori che danno consigli ai “residenti”, attenti al ciclista, attenti a un po’ di ciclisti, attenti a milleduecento ciclisti.
Usti. Milleduecento? Ah, però.
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Dunque, facciamo quattro conti. La lunghezza standard di una bicicletta è di circa un metro e novanta; secondo il poco noto Teorema di Poulidor bisogna calcolare almeno un metro di distanza tra un ciclista non professionista e l’altro. Pertanto, in base al predetto teorema (ma soprattutto al risultato apparso sulla mia calcolatrice) moltiplicando 1.200 per 2,90 si ottiene 3.480; ossia, per buttarla in distanza, va e vieni tre chilometri e mezzo.
Per il teorema di cui sopra possiamo sostenere che, messi diligentemente in fila indiana sulla destra della carreggiata in modo da non intralciare il passaggio dei concorrenti delle consuete tradizionali concomitanti gare di automobilismo e motociclismo in corso sulla SP 62, questi 1.200 temerari del copertone stretto formerebbero un variopinto serpente pari alla distanza tra Taceno e Cortenova (la formula è la seguente: 1.200 x 2,90 = Taceno – Cortenova).
Nel caso la distanza aumentasse a due metri: 1.200 x 3,90 = Cortenova – Barcone.
Nel caso (e poi la pianto qui) di una distanza fra ciclisti di tre metri: 1.200 x 4,90 = Cortenova – Vimogno.
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Conclusione?
Sono curioso di vedere come andrà a finire: intanto siate tutti prudenti e voi ciclisti, mi raccomando, non dimenticate una delle ipotesi su cui si basa il Teorema di Poulidor.
Il buon senso della fila indiana.
Buona domenica.
Riccardo
Benedetti
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