Giovanni Fazzini era un uomo che ha attraversato da protagonista la storia della Provincia di Lecco nell’ultimo mezzo secolo.
Era veramente un esempio di grande democristiano, ma la sincrasi ha acquisito nel tempo un significato oggettivamente un po’ negativo: lui era sinceramente democratico e cristiano, oggi forse potremmo meglio definirlo come un “cristiano sociale”.
Uno di quei personaggi come l’indimenticabile dottor Aldo Rossi (presidente della provincia di Como quando Fazzini ne era consigliere), Antonio Spreafico (sindaco del Comune di Molteno più volte negli anni Settanta), come a Firenze lo era stato Giorgio La Pira: una generazione cresciuta all’ombra degli oratori e delle prime associazioni cattoliche, la cui massima trasgressione era stata quella di invertire l’ordine dei Dieci Comandamenti e di mettere al primo posto quello di “Non Rubare”!
Altri ce ne sono stati e potrebbe ricordarli meglio di me il mio amico ex senatore Antonio Rusconi (tra essi ricorderei anche il grande preside del Liceo Classico di Lecco Lamberto Riva, deputato dell’Ulivo dal 1996 al 2001).
Una classe politica che oggi amaramente rimpiangiamo: non tutto quello che proveniva dalla Prima Repubblica era da buttare via, in confronto ai politici di oggi c’era una preparazione e una misura nelle parole senza paragone.
Una corrente cattolica trasversale (potevano essere forlaniani, marcoriani, di Donat Cattin o altro, venivano genericamente definiti la “Sinistra DC”) ma che si rifaceva sostanzialmente alla sintassi della “Rerum Novarum (1891, Papa Leone XIII): una visione della società in cui non si condannava il Capitalismo, anzi lo sviluppo industriale doveva portare a uno sviluppo generale, basta che avesse un volto umano, e non ci si dimenticasse degli “Umili” (come li chiamava Alessandro Manzoni).
Questa era la visione degli uomini migliori di quella classe politica (altri invece come noto si fecero prendere da maneggi, “dazioni”, interessi personali e altro).
Ho conosciuto tardi Giovanni Fazzini (“Giuanin”, un ossimoro per un uomo alto e grosso come lui).
Un uomo cordiale, simpatico, pronto alla battuta. Quando si sfasciò la DC non ebbe esitazioni ad entrare nel campo del CentroSinistra: prima nei Popolari, poi nella Margherita (dove appunto l’ho incontrato più spesso, essendoci anch’io) e infine nel PD.
Presidente del Consiglio provinciale di Lecco, insieme a Guido Agostoni doveva rappresentare la Valsassina nella giunta guidata da Virginio Brivio nel 2004-2009.
Il fatto di venire da Premana (un paese-città oggettivamente di periferia nell’ambito provinciale) per lui non era un ostacolo. Andava e veniva da quegli infiniti tornanti e curve e controcurve in continuazione (meglio di un taxi driver) e te lo trovavi dappertutto!
In Brianza (ai festival PD di Osnago), a Milano, Como, non c’era manifestazione a cui non fosse presente.
Una volta l’ho incontrato a Morterone, a uno spettacolo del Melabò sponsorizzato dalla Provincia.
Le strade per lui non erano un problema: credo che le sue auto abbiano percorso centinaia di migliaia di chilometri senza fiatare!
Un’altra cosa che mi aveva colpito era il suo rispetto per la forma: non si toglieva mai la giacca e cravatta. Una volta accompagnò noi giornalisti a vedere lo stato di avanzamento della Lecco-Ballabio (che sarebbe stata inaugurata un anno dopo) in un pulmino sotto il sole torrido di luglio. Tutti i consiglieri presenti si erano tolti la giacca e arrotolata la camicia (come fanno oggi Renzi e Salvini tra gli altri).
Lui no: piuttosto sudare come un cammello, ma mai togliersi giacca e cravatta, una uniforme.
Un rispetto per la forma che andava ben oltre l’esteriorità (questo comunque non gli impedì affatto di essere esaustivo nello spiegare ai giornalisti lo stato dei lavori all’epoca ancora in corso).
Non mi soffermerò oltre a parlare del suo notorio attaccamento per Premana (per i suoi abitanti Premana come è noto non è un paese, è una seconda Religione!), anche quando del tutto d’accordo con il suo amico Antonio Bellati, gli sottoposi il mio rincrescimento per come era stata trattata la zona di Giabbio (dove c’erano vicino al fiume Varrone antiche officine siderurgiche del Settecento, demolite per dare spazio ai capannoni).
Mi auguro però in conclusione che a un personaggio di questa levatura vengano intitolate strade e vie, magari non solo in Val Varrone, ma anche in altri paesi della Valsassina: se lo meriterebbe di sicuro!
Enrico Baroncelli