COVID, L’INTROBIESE STEFANO IN PATAGONIA: “C’È IL COPRIFUOCO MA È UN PRETESTO, ANCORA NON SI PERCEPISCE L’EMERGENZA”



Il punto rosso corrisponde a Puerto Natales

PUERTO NATALES (CILE) – L’America del Sud è stata, in ordine cronologico, uno degli ultimi territori ad essere toccato dalla diffusione del Coronavirus. Tre giorni fa abbiamo analizzato brevemente la situazione in Brasile, mentre nello speciale di oggi andremo a raccontare l’emergenza in Cile.

Per farlò abbiamo contattato Stefano, introbiese “giramondo” per eccellenza, da settembre situato a Puerto Natales, una città nella Patagonia cilena dove lavora nel settore del turismo al Parco Nazionale Torres del Paine.


Qui a Puerto Natales siamo 15mila persone e molto isolati rispetto al resto del Paese. Per andare verso Santiago, capitale posta al centro del Cile, dovrei prendere un aereo o la barca; i collegamenti terresti diretti non esistono, ma passano tutti dall’Argentina. Noi non siamo ancora in quarantena, ma il governo centrale sta iniziando ad adottare i provvedimenti. Da una settimana tanti lavoratori sono a casa (io compreso) e vige un coprifuoco dalle 22 alle 5 del mattino. Detto così serve a poco, ma è anche una questione meramente politica: da diverso tempo ci sono movimenti sociali e proteste contro le politiche neoliberiste vigenti, quindi in questo modo il Governo può permettersi di controllare al meglio le città con i militari in strada.

A differenza della limitrofa Argentina, che dopo i primi 60 casi ha deciso di chiudere quasi tutte le attività, il Cile non ha ancora considerato scelte simili. Visto quanto accaduto in Europa e Asia, il Sud America dovrebbe essere ben conscio di quello che potrebbe succedere se la situazione si aggravasse, ma non tutti gli Stati stanno sfruttando il vantaggio di avere degli esempi davanti.

Qui probabilmente avremo non pochi problemi perché mancano i respiratori, i letti ecc. Io sono segregato in casa da una settimana, ma la gente del posto non si rende ancora conto di quanto possa aggravarsi tutto questo e continua ad uscire e a vivere tranquillamente. La mia idea è che finché il virus non ti tocca, non lo senti davvero vicino e non prendi le precauzioni necessarie.

Gli ultimi dati ufficiali danno 2700 contagi e 12 morti (in tutto il Cile) su una popolazione di circa 23 milioni di persone, di cui 8 milioni solo a Santiago, mentre tutti gli altri sono sparsi in un territorio vastissimo. Questo da una parte aiuta perché è molto più difficile che il virus si propaghi velocemente e passi da una città all’altra, ma dall’altra c’è il pericolo che, se per disgrazia venisse colpita anche la campagna, questa non avrebbe i mezzi adatti per difendersi.

Un altro problema delle zone poco accessibili come questa riguarda il rischio di vederci bloccati i rifornimenti che giungono con i pochi trasporti (qualche camion dall’Argentina e una barca dalla capitale ogni settimana). Se dovesse esserci una crisi di panico, la gente svuoterebbe i supermercati e bisognerebbe aspettare giorni prima di avere di nuovo i rifornimenti sufficienti.

Un altro dato allarmante è la mancanza di informazioni, poche e vaghe. L’ospedale di Puerto Natales non ha lasciato per giorni alcuna dichiarazione e la gente è rimasta col fiato sospeso e ha iniziato ad allarmarsi.

C’è stato un po’ di razzismo nei confronti degli italiani, probabilmente si è cercato un capro espiatorio a cui dare la colpa. Io alla gente dico ‘tranquilli, sono qui da settembre’.

Rubrica a cura di Gabriele Gritti

Prossimamente racconteremo le esperienze di altri valsassinesi che stanno affrontando l’emergenza lontano da casa. Se volete partecipare scriveteci a info@valsassinanews.com o sulla nostra pagina Facebook.

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