MILANO – Una folla alla cerimonia di scoprimento delle lapidi dedicate ai nuovi benemeriti iscritti nel Famedio. Numerosi tra i presenti gli amici di don Luigi Melesi: l’ispettore don Roberto Dal Molin, il direttore dell’istituito Salesiano S. Ambrogio don Sandro Ticozzi, il vescovo salesiano don Gaetano Galbusera, tanti altri confratelli salesiani ed ex allievi salesiani provenienti da ogni parte, così molti valsassinesi con il sindaco di Cortenova. Poi il numerosissimo e immancabile gruppo di coloro che appartengono alla famiglia allargata degli affetti di don Luigi: costoro testimoniano continuamente il suo operato che potrà essere raccolto già dal Forum Giovani del Movimento Giovanile Salesiano nel prossimo convegno di Arese.
Una cerimonia toccante e solenne, con una perfetta organizzazione che ha saputo unire e accogliere Città e Cittadini in queste grande occasione di riconoscenza.
L’Amministrazione comunale ha presieduto l’evento con il sindaco Giuseppe Sala che ha introdotto la cerimonia, la presidente del Consiglio comunale Elena Buscemi che ha letto le biografie dei nuovi iscritti e l’assessora ai Servizi civici Gaia Romani. Il discorso delle autorità ha evidenziato come le benemerenze dei nuovi cittadini illustri sia stato coerente con i valori più nobili della Città di Milano, per essere ricordato e tramandato.
Ma nel caso di don Melesi e dei salesiani di Milano c’è di più.
Ancora una volta l’Ambrosianità e la Salesianità si ricongiungono. E l’occasione avviene con l’iscrizione di don Luigi Melesi tra i cittadini illustri del Famedio, il Pantheon ambrosiano, dove sono riportate le lapidi di coloro che sono considerati degni di passare alla storia della Città. Gli “illustri” per meriti letterari, artistici, scientifici o atti insigni, i “benemeriti” che per virtù proprie hanno recato benefici e fama alla città e i “distinti nella storia patria” che hanno contribuito all’evoluzione nazionale.
Con la cerimonia del 2 novembre 2024 si è confermato ancora una volta il forte legame tra i valori morali e civili della Città ambrosiana e l’operato dei Salesiani di don Bosco di Milano, che già nella denominazione del loro istituto S. Ambrogio di via Copernico, hanno voluto indicare che le loro opere fossero condotte secondo il sistema educativo di don Bosco, nel solco di una piena ambrosianità.
Molto di tutto ciò ha un inizio lontano, negli anni terribili del 1944-45.
Nei locali della Casa Salesiana di Milano, che fu sede del Comitato di Liberazione nazionale dell’alta Italia, si decideva il futuro del Paese facendo scoccare la scintilla della Liberazione e si decise l’insurrezione generale. Nella “sala verde” dell’istituto di Via Copernico i capi della Resistenza, Pertini e gli altri leader politici del fronte antifascista, si ritrovavano già dall’inizio del 1945 per mettere a punto le strategie finali della lotta partigiana, discutendo del futuro del Paese devastato dalla dittatura e dal conflitto.
Incontri segretissimi e assai rischiosi, anche per la prossimità dei nazifascisti che controllavano la zona, senza contare che i tedeschi avevano requisito alcuni ambienti dei salesiani per utilizzarli come depositi (e in più occasioni vi fecero anche accampare reparti dell’esercito). Eppure, paradossalmente, proprio per questo i nazifascisti non poterono immaginare che il Comitato di liberazione nazionale si riunisse sotto il loro naso!
L’artefice di questa impresa coraggiosa ha un nome preciso, quello di un giovane prete don Francesco Beniamino Della Torre (foto a sinistra). Nel più assoluto riserbo, ma avendo informato i superiori e d’intesa con l’arcivescovo Schuster, prese subito contatto con esponenti della Resistenza, fungendo da collegamento tra Milano e Como per fornire informazioni ai combattenti, ma anche per mettere in salvo ricercati e giovani reni tenti (come, del resto, facevano altri confratelli insieme ai giovani del contiguo oratorio Sant’Agostino). Una lapide commemorativa, posta dal Comune di Milano nel porticato del cortile, ricorda questi fatti e suggella un punto importante tra l’Ambrosianità e la Salesianità.
Quel legame fu poi ratificato dal Presidente della Repubblica Sandro Pertini, quando tornò a ringraziare per quella ospitalità pericolosa il 25 aprile 1980. Lo accolse nell’istituto salesiano di via Copernico l’ispettore don Angelo Viganò e il sindaco Carlo Tognoli. Fui testimone di quell’incontro. Pertini ricordò che il 25 aprile del 1945, tra quelle mura, il Comitato di liberazione nazionale alta Italia si era riunito fin dal primo mattino per decretare e diffondere l’ordine di insurrezione generale che da li? a poche ore avrebbe portato alla liberazione dall’oppressione nazifascista e quindi alla fine della guerra.
Fu poi la volta del Centro Salesiano San Domenico Savio di Arese, che sostituì l’Istituto di rieducazione per i giovani Cesare Beccaria, immerso in un mare di problemi morali, disciplinari ed economici.
Di questo punto di congiunzione tra l’Ambrosianità e la Salesianità ne ricorda addirittura la sua genesi il Sommo Pontefice Paolo VI, rivolgendosi ai Salesiani di Arese nell’udienza privata del 28 agosto 1969 a Castelgandolfo. Le parole del Pontefice sono riportate nella prefazione del libro di don Melesi: Memorie di una casa di rieducazione.
Montini, allore Arcivescovo di Milano, ricordò che su pressione del Prefetto di Milano Sua Ecc. Liuti che rivolgendosi a lui disse. “Ci aiuti perché qui non sappiamo più cosa fare”, riferendosi alla grave situazione della casa di rieducazione di Arese, “tale da scoraggiare anche i più bravi”, fu costretto “a ricorrere e a forzare la mano ai salesiani”, dapprima “esitanti, ma poi si arresero con sacrifico incomparabile” all’appello dell’Arcivescovo.
E ancora Paolo VI, nell’udienza ai salesiani di Arese a distanza di anni da quegli eventi disse: “Sono felice di rivedervi, di ringraziarvi ma sento la responsabilità e un po’ di colpa per avervi addossato sulle spalle una croce così grave”. E continuò: “ma voi avete rimesso nell’animo di questi ragazzi la speranza; avete detto loro: tu puoi diventare uomo, tu puoi diventare buono, tu puoi diventare professionista”. Espressioni che hanno richiamato il metodo educativo di don Bosco.
Don Melesi che fu educatore e direttore anche nella Casa Salesiana di Arese, dove operarono tanti altri grandi salesiani, fu proprio “uomo della speranza” per tutti, e praticò nel suo operato, applicando il metodo di don Bosco, quanto ricordato da Paolo VI.
Un altro punto di congiunzione tra l’Ambrosianità e la Salesianità lo troviamo quando il cardinal Colombo chiese ancora ai salesiani la disponibilità di un cappellano per affrontare le condizioni difficili del carcere di S. Vittore. Accorse all’appello don Luigi Melesi e vi rimase per ben 30 anni, schierato come lui diceva spesso, “dalla parte del colpevole” per non fargli perdere la speranza e per ricordargli come tanto piaceva a Montini, così come al cardinal Martini, che “La persona, anche se delinquente è sempre un valore, resta un bene in sé stessa, è una reale ricchezza da recuperare, è un uomo! La persona umana è la realtà più preziosa di tutta la creazione”.
E dopo l’umanizzazione del carcere di S. Vittore, don Melesi si occupò dell’umanizzazione del detenuto, l’opera più duratura e significativa di don Luigi, con la “complicità” profetica del Cardinal Martini, e un lungo e faticoso percorso di bonifica del “terreno umano”, soprattutto nel triste periodo della storia italiana conosciuto con il termine “anni di piombo”, che consentì la fine della lotta armata e la consegna rocambolesca delle armi in Arcivescovado, al Cardinal Martini, il 13 giugno 1984. Ne scrive su Avvenire del 1° novembre Giorgio Paolucci, in una bellissima intervista a Ernesto Balducchi, dal titolo “Dalla preghiera per i terroristi morti si è arrivati alla consegna delle armi”.
Poi è giunto il tempo delle riconoscenze della Città di Milano con l’Ambrogino d’oro e l’iscrizione al Famedio, perché don Luigi Melesi non ha cristallizzato la sua attività sull’istante della su azione, ma l’ha trasferita alla comunità, ha seminato perché altri oggi e in futuro possano raccogliere i frutti. Ha operato negli anni a lui consentiti dalla vita, ma ha lasciato memoria di quanto fatto: un immenso patrimonio di ricordi e testimonianze e un immenso patrimonio di scritti, riflessioni, prassi educative dove anche gli studiosi dei problemi di oggi e in futuro, attingono e potranno farlo ancora trovando contributi di rara intelligenza.
Da oggi, il nome di don Luigi Melesi, sacerdote degli ultimi e uomo della speranza per tutti, è ricordato sulle lapidi del Famedio, tra i cittadini illustri. Nella sua unicità, di “uno che lotta anche quando dorme, protesta, si arrabbia maledice le ingiustizie, prende di petto le autorità se vede che la pratica da cui dipende la libertà del detenuto si arena per eccesso di burocrazia. Non ha paura né della forma né delle parole: “sul calvario di Cristo – dice c’erano anche delinquenti, bestemmiatori, ubriachi”, come scriveva il giornalista Candido Cannavò in un suo libro, c’è il continuo consolidamento tra l’Ambrosianità e la Salesianità, dove l’operato degli educatori salesiani, secondo gli insegnamenti di don Bosco, continua a interpretare i valori più alti e nobili della Città di Milano.
Valerio Ricciardelli