RUBRICA TRA AQUILE E LEONI RAMPANTI: A PASTURO UN FIORE A CINQUE PETALI



Agnese MondellaPASTURO – C’è un diretto richiamo manzoniano a Pasturo: qui infatti il romanzo manda Agnese a preservarsi dalla peste – a Renzo che chiedeva della madre di Lucia, don Abbondio risponde: «È andata a starsene nella Valsassina, da que’ suoi parenti, a Pasturo, sapete bene; ché là dicono che la peste non faccia il diavolo come qui».  Caratteristica che distingue Pasturo dagli altri centri della valle – la rileva l’Orlandi nel suo repertorio delle famiglie valsassinesi – è di avere una forma allungata; altra singolarità è che l’unica comunità di Pasturium fosse un tempo divisa nettamente in due nuclei, Crotta e Chiesa, che eleggevano ciascuno il proprio console. I primi insediamenti umani in questa area della Valsassina risalirebbero all’età neolitica, come si ricava dal ritrovamento di alcune punte di freccia e di ceramiche in località Baiedo.

Nell’alto Medioevo il territorio fu di proprietà della contessa Ferlenda di Lecco che, nel X secolo, possedeva un castello in prossimità del torrente Pioverna. Nel XV secolo faceva parte delle proprietà degli Sforza, i quali vi fecero costruire una rocca di enormi dimensioni; la fortezza era presidiata da Simone Arrigoni e, quando le truppe francesi invasero il ducato di Milano, egli venne catturato e giustiziato.

Leonardo da Vinci, nel disegnare i suoi progetti militari, si ispirò all’architettura del castello, prima che la fortificazione venisse rasa al suolo agli inizi del ‘500.

La particolare composizione dello stemma comunale allude alla bellezza ed alla fertilità dei terreni, combinando  un fiore rosso a cinque petali radicato nella parte bassa barrata d’oro e rosso.  Questo antico stemma è stato rinvenuto nella collezione settecententesca del Bonacina, già conosciuta come raccolta araldica Vittorio Guelfi Camajani.

Transitando sulla sp62 procedendo verso Pasturo una volta oltrepassato il ponte di Chiuso proveniendo da Introbio non si può non notare un grosso frammento, staccatosi in epoca glaciale, giace erratico nel territorio di Baiedo. Narrano che un brav’uomo stesse raccogliendo castagne in quei dintorni quando gli apparve il demonio sotto le spoglie di viandante, cercando di circuirlo con mille offerte per farsi cedere l’anima, giungendo perfino a chiedergli di porre lui stesso le condizioni. “Ebbene – rispose alla fine l’uomo stanco di vederselo attorno – ti cederò l’anima quando avrai portato questo sasso sino in cima alla Grigna”.

Rideva, certo che quell’assurda richiesta fosse impossibile da soddisfare e che il viandante avrebbe cessato di tormentarlo. Il diavolo, invece, non si fece ripetere due volte la domanda: appoggiò la schiena contro lo scoglio, lo sollevò senza sforzo e si diresse verso l’alto a rapido passo. L’uomo solo allora comprese con chi aveva a che fare e impallidì, disperandosi della propria leggerezza che gli stava costando la dannazione eterna. Senonché, essendo il giorno vicino al termine, d’improvviso la campana di Baiedo prese a suonare l’Ave Maria. Il demonio, al rintocco fatale, abbandonò il carico e fuggì, perdendo la scommessa.

Il macigno è ancora visibile in località Alghero. I vecchi lo chiamavano corna del pecà e vi indicavano alcuni segni affermando che fossero le impronte delle zampe del maledetto che trattenevano il carico durante il trasporto. (testo di Pietro Pensa, da L’Adda, il nostro fiume volume terzo).

fonti: italiapedia – valsassinacultura

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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